Il congiuntivo italiano per tedeschi. Una proposta didattica corpus-based


Master's Thesis, 2018

129 Pages, Grade: 110 cum laude


Excerpt


Indice

Introduzione

Capitolo primo

Il congiuntivo italiano

Capitolo secondo

Der Konjunktiv

Capitolo terzo

Il congiuntivo italiano nelle VdA di tedescofoni

Analisi di VALICO

Capitolo quarto

Il modo congiuntivo nei manuali di Italiano l

Il congiuntivo italiano per tedeschi: una proposta didattica

Conclusioni

Bibliografia

Introduzione

Negli studi di linguistica acquisizionale viene da sempre sottolineata la forte influenza che la lingua madre di un’apprendente può avere sull’acquisizione di una L2/LS: quando si impara una nuova lingua, infatti, sia questa appresa in forma guidata in un corso di lingua e con l’aiuto di un insegnante o spontaneamente nel paese della lingua di arrivo, la propria L1, rappresenta l’unico elemento di paragone di cui disponiamo per poter comparare e realmente comprendere una certa struttura e la funzione che questa può avere nell’intero discorso. Tutto questo accade specialmente quando la lingua che vogliamo apprendere è molto differente dall’italiano, appartiene cioè ad un’altra tipologia linguistica, il che determina l’esistenza di strutture, di tempi e modi verbali e processi di formazione e derivazione delle varie categorie grammaticali molto diversi da quelli a cui si è abituati.

La situazione appena descritta si presenta con una certa regolarità e frequenza soprattutto nelle prime fasi dell’apprendimento, ovvero quelle di familiarizzazione con la nuova lingua, per poi ridursi in modo graduale nelle annualità successive, ovvero man mano che l’apprendente accresce e perfeziona le proprie competenze e abilità comunicative e acquisisce sempre più strutture.

Talvolta, però, l’influenza della L1 può rappresentare un vero e proprio ostacolo per la buona riuscita del processo di apprendimento, in quanto, anche nelle annualità più avanzate, può determinare il persistere e il fossilizzarsi di certe forme e strutture errate, che d’ora in avanti chiameremo “interferenze”, il più delle volte derivanti dalla mancata (corretta) acquisizione e/o comprensione della struttura della lingua target, che viene dunque “compensata” con il ricorso a strutture della propria lingua materna, al fine di comare le proprie lacune.

In questo lavoro si è deciso di trattare il tema delle interferenze linguistiche della L1 in relazione all’apprendimento del congiuntivo italiano da parte di apprendenti tedescofoni, essendo questa struttura di particolare interesse, non soltanto da una prospettiva sociolinguistica, ma anche da un punto di vista didattico e contrastivo. È abbastanza noto, infatti, che il congiuntivo italiano è una struttura particolarmente complessa, continuamente sottoposta ai numerosi mutamenti che investono la lingua, e che seppur presente in molte altre lingue, in nessuna di queste assume la stessa importanza che riveste invece in italiano, come dimostrano i suoi numerosi contesti di utilizzo. In virtù della sua estrema complessità e particolare “sensibilità” alle variazioni sociolinguistiche dell’italiano, inoltre, questo modo verbale rappresenta un vero e proprio scoglio per molti apprendenti sia stranieri che italiani, che si trovano a dover fare i conti con una struttura del tutto “variabile”, il cui utilizzo al giorno d’oggi appare del tutto incerto in contesti colloquiali, ma non in quelli formali, nei quali si rivendica, invece, la sua assoluta importanza e insostituibilità.

Obiettivo della nostra ricerca è, in particolare, quello di proporre degli esercizi e delle attività didattiche mirate, creati cioè appositamente per apprendenti tedescofoni, sulla base dei principali errori da interferenza che questi compiono quando utilizzano il modo congiuntivo, al fine non solo di ottimizzare gli esiti del processo di apprendimento con il netto ridimensionamento del numero di casi di interferenza con il tedesco, ma soprattutto di rendere l’apprendente maggiormente consapevole delle principali differenze tra il tedesco e l’italiano soprattutto in relazione alla struttura di nostro interesse e alle modalità di cui queste due lingue dispongono per esprimere uno stesso concetto.

Dal punto di vista della strutturazione interna, questo lavoro si compone di quattro capitoli ben distinti, ma tutti strettamente collegati tra loro: i primi tre, infatti, di cui ognuno è la prosecuzione logica dell’altro, rappresentano una sorta di “preambolo” per il capitolo finale, in cui si condensa il nucleo centrale dell’intera ricerca. Volendo entrare più nello specifico, nei primi due capitoli, di stampo più compilativo e con funzione più che altro “introduttiva”, viene presentato il congiuntivo sia in italiano che in tedesco, al fine di determinare i punti di divergenza e di convergenza tra le due lingue, e far emergere quei punti che potrebbero creare delle difficoltà nell’apprendimento del congiuntivo italiano da parte di apprendenti tedescofoni. Il carattere più tradizionale e compilativo di questi due capitoli viene, tuttavia, “smorzato” dall’idea più innovativa e al passo con le attuali tendenze di ricerca in ambito linguistico, di affiancare alle regole di grammatica, esempi ricavati dall’interrogazione di due corpora, NUNC e DeReKo, al fine di mettere in luce il carattere evolutivo e mutevole delle due lingue (oltre che di far emergere la lingua viva, ossia quella parlata nella realtà di tutti i giorni) e di mostrare come molte delle prescrizioni normative della grammatica siano in realtà poco osservate nelle conversazioni di tutti i giorni o a seconda che la comunicazione avvenga in forma orale, scritta o mediatica.

Nel terzo capitolo, invece, l’attenzione si è spostata sull’analisi del corpus VALICO, attraverso il quale è stato possibile valutare concretamente come gli apprendenti tedescofoni utilizzano il congiuntivo nelle varie annualità di studio, quali siano i reali effetti delle interferenze del tedesco e quali errori questi possano generare, distinguendoli da eventuali fenomeni di diafasia e/o diastratia. Nella prima parte del capitolo, inoltre, è stato proposto un resoconto di alcuni dei più importanti studi nell’ambito della linguistica acquisizionale circa le sequenze di acquisizione di modi e tempi verbali, il concetto di “interlingua” e le strategie di apprendimento adottate dagli apprendenti, i cui risultati sono stati poi confermati o confutati dall’analisi stessa del corpus.

Nel quarto e ultimo capitolo, infine, sulla base dei principali errori da interferenza osservati nel capitolo precedente, sono state create e proposte alcune attività didattiche ad hoc, ovvero, come già accennato prima, pensate e sviluppate appositamente per apprendenti di madrelingua tedesca, al fine di aiutarli a comprendere l’origine dei propri errori e dare loro l’input per una riflessione critica sulle divergenze morfo-sintattiche tra le due lingue. Prima di ciò, tuttavia, si è ritenuto necessario procedere con un’ulteriore analisi preliminare, nella quale sono stati esaminati alcuni manuali di italiano L2, sia dal punto di vista del metodo e dell’approccio adottati (modalità di presentazione delle regole e ordine degli argomenti), sia da quello didattico, ovvero relativo alla natura degli esercizi proposti, con l’obiettivo di valutare la loro adeguatezza ad un gruppo di apprendenti di lingua tedesca e stabilire se i loro esercizi possano contribuire al superamento delle problematiche e difficoltà da questi manifestate.

Capitolo primo

II congiuntivo italiano

1. Premessa

La lingua italiana, così come tutti gli altri sistemi linguistici esistenti, rappresenta un sistema complesso, mai stabile e sottoposto continuamente a cambiamenti di varia natura, che fanno del dinamismo e della flessibilità due delle sue principali peculiarità. Questo incessante “processo evolutivo” della lingua, in realtà, non è altro che il risultato di mutamenti di più ampia portata, che interessano l’intero complesso sociale in tutte le sue diramazioni e sfaccettature.

Tali mutamenti non riguardano solamente la sfera lessicale, ma coinvolgono la lingua a tutto tondo, dalla fonologia alla sintassi, dalla morfologia ai generi testuali, determinando talvolta la coesistenza di due dimensioni linguistiche differenti, una scritta e l’altra orale, ognuna delle quali regolata da proprie norme (talora anche totalmente divergenti) e rispondenti a esigenze comunicative differenti. In particolare, in riferimento alla lingua parlata contemporanea, essi coincidono con i cosiddetti “fenomeni di semplificazione linguistica” (Berruto, 1983), che nello “italiano popolare” vanno ad intaccare con maggiore evidenza soprattutto il sistema verbale e sono i responsabili di un sempre più frequente “declassamento” del congiuntivo a favore dell’indicativo, che si afferma come modo verbale preminente.

In virtù di quanto appena detto, si è ritenuto opportuno in questo primo capitolo ricorrere al corpus di italiano NUNC (Newsgroups UseNet Corpora) realizzato dall’Università degli Studi di Torino, dal quale sono stati estrapolati tutti gli esempi presenti in questa parte, con il fine di osservare il reale comportamento delle strutture linguistiche prese di volta in volta in esame e mettere in luce eventuali divergenze dalle norme prescrittive delle grammatiche, che si verificano solitamente in contesti enunciativi informali e poco curati.

NUNC è la più grande raccolta di testi di italiano scritto, che si contraddistingue da tutti gli altri corpora esistenti sia per la natura dei testi raccolti (appunto i Newsgroup), che per la loro estrema attualità e, dunque, aderenza alla realtà comunicativa contemporanea. I Newsgroup, infatti, non sono altro che spazi virtuali presenti in una rete di server interconnessi (UseNet), nei quali i vari utenti pubblicano e condividono post, pensieri e domande in riferimento ad un determinato argomento (topic) e organizzati, dunque, in gerarchie tematiche (Barbera, 2007). Si tratta, pertanto, di dati linguistici di vitale importanza, in quanto, esempi di quella che oggi viene definita “Comunicazione mediata dalla rete”, e che presentano a livello testuale, dei tratti caratteristici che divergono nettamente dai paradigmi testuali tradizionali. Uno di questi tratti è proprio l’ibridità, riconducibile essenzialmente alla forma scritta della comunicazione (mezzo) e al carattere di colloquialità che questi testi presentano (concezione), aderendo così alla classificazione operata da Koch/Österreicher (1990) di “medial schriftlich konzeptionell mündlich”. Tuttavia, nonostante l’immediatezza comunicativa, dettata dalla sincronicità con cui avvengono le comunicazioni in rete, in essi la distanza è un elemento pressoché determinante per “la non compresenza fisica degli interlocutori” (Corino, 2007: 228).

In virtù di tali caratteristiche, dunque, si possono considerare I NUNC come una preziosa testimonianza sull’uso effettivo che gli Italiani fanno della propria lingua, nonché una risorsa di vitale importanza non solo per il linguista che voglia studiare i comportamenti linguistici, i mutamenti e i processi evolutivi della lingua italiana, quanto anche per un qualsiasi apprendente straniero che voglia entrare “nel vivo” dell’italiano, ossia entrare in contatto con lingua “vera”, in tutte le sue sfaccettature e combinazioni.

2. Definizione di congiuntivo

Il congiuntivo è uno dei sette modi di cui si compone il sistema di coniugazione verbale italiano. Esso consta di quattro tempi fondamentali, di cui due semplici, presente e passato, e due composti, imperfetto e trapassato, la cui scelta, nella maggior parte delle frasi complesse, è strettamente condizionata (in virtù della cosiddetta consecutio temporum) dal tempo usato nella frase principale.

2.1 La modalità e il concetto di “modo”

In italiano, così come in molte altre lingue romanze e/o europee, il concetto di congiuntivo è imprescindibilmente associato a quello di modo e modalità, a tal punto che una chiarificazione del significato di questi ultimi rappresenta un presupposto fondamentale per comprendere il valore e la funzione che esso ricopre all’interno della frase. In linguistica, il termine modalità1 designa una determinata categoria di significato, che esprime la necessità o la possibilità che l’azione espressa in un enunciato si realizzi. In essa, pertanto, convergono tutte quelle risorse linguistiche, quali: avverbi modali, valutativi, illocutivi, verbi modali e, anche, i modi del verbo, attraverso cui viene resa esplicita la soggettività del parlante, il suo modo di porsi verso il mondo, nonché verso l’atto enunciativo e/o l’enunciato stesso.

Sulla base dei numerosi studi condotti da Lyons (1977) e successivamente ripresi e approfonditi da Palmer (1986), si identificano, per convenzione, due principali tipologie di modalità, deontica ed epistemica, che ancora tutt’oggi rappresentano alcuni dei capisaldi della logica modale. La modalità epistemica (1) è quella attraverso la quale, in un determinato enunciato, il parlante esprime il proprio giudizio e/o la propria posizione riguardo allo stato di cose ivi presente, classificandolo indirettamente come sicuro, probabile o possibile:

(1) a. Credo che si debba guardare la situazione da un altro punto di vista.

b. Magari riuscissi ad andare ancora a caccia di qualcosa!

Come è possibile osservare dagli esempi, infatti, il parlante non descrive in maniera chiara e diretta il proprio atteggiamento verso l’enunciato, ma lo esprime attraverso le risorse linguistiche e le forme morfologiche che impiega. Proprio per questo motivo esso risulta” condensato nella forma modale”, come scrive Pietrandrea:

Being expressed, and not described, the speaker’s attitude is not made explicit but is condensed in the modal form (Pietrandrea, 2005:13).

La modalità deontica (2) è, al contrario, quella che esprime la necessità, obbligatorietà, il divieto o il permesso che un certo stato di cose venga realizzato (Renzi & Salvi, 1991)2.

(2) a. Un bravo giornalista non deve dare opinioni personali, ma solo la notizia.

b. In genere comunque bisogna avere molta pazienza!

Il modo, invece, insieme ad altri elementi, quali tempo, aspetto, diatesi, persona e numero, rappresenta una delle principali categorie grammaticali utilizzate per la descrizione delle caratteristiche del verbo, (qui inteso come classe di parole), e indica il “tipo di atteggiamento che il parlante assume verso la propria stessa comunicazione” (Serianni, 2006:382), in altre parole, il modo in cui il parlante presenta l’azione espressa dal verbo della frase3. Il modo indicativo (1), ad esempio, è quello che indica un fatto in quanto tale, presentato come realtà vera e incontestabile; il modo congiuntivo (2) indica, invece, un’azione legata principalmente alla sfera soggettiva del parlante e interpretabile come desiderio, volontà o supposizione; il modo condizionale (3) indica la presenza di un certo condizionamento esterno, reale o possibile, che influenza una certa azione e per lo più indipendente dalla volontà del parlante; il modo imperativo (4), infine, viene utilizzato per l’espressione di ordini, preghiere e/o esortazioni, con l’obiettivo di esercitare una certa influenza sul comportamento dell’ interlocutore. Il modo verbale, dunque, influisce notevolmente sia sulla natura dell’enunciato in se che dell’atto linguistico in esso contenuto, rendendone possibile la distinzione in: asserzione, domanda, ordine ed espressione di volontà (Schneider, 1999).

(1) La colazione è importante. Non è una buona idea uscire di casa senza mangiare.
(2) Semmai dovessimo fare un giro, potresti venire anche te!
(3) Con quella tessera, in teoria, tu potresti entrare solo in quel circolo.
(4) Semplicemente contattaci quando sei davanti al locale.

3. Usi del congiuntivo

In italiano il congiuntivo è ampiamente adoperato nella frase complessa (comunemente nota anche come “periodo”), a tal punto da essere riconosciuto da gran parte delle grammatiche attualmente in circolazione come il modo verbale tipico della subordinazione. Si legga in Fornaciari:

Il congiuntivo è di sua natura un tempo dipendente e complementare, e perciò il suo vero luogo è nelle proposizioni subordinate (Fornaciari 1881/2005:372)

Tale ideologia deriva indubbiamente dal latino, in cui il congiuntivo (lat. Subiunctivus) era l’unico modo verbale ammesso nelle frasi dipendenti e veniva così distinto dall’ottativo, che designava invece quel tipo di congiuntivo “più autonomo”, impiegato per esprimere un ordine indiretto, rivolto cioè a terzi (Schneider, 1999) e dal potenziale, corrispondente al nostro attuale condizionale.

Abbastanza frequente in italiano è, però, anche l’utilizzo del congiuntivo in frasi principali, o meglio “indipendenti”, nelle quali esso può assumere diversi valori a seconda di ciò che esprime. È bene precisare, tuttavia, che nonostante il modo verbale utilizzato in entrambi i tipi di frasi sia sempre lo stesso, il valore che esso assume è di gran lunga differente. Infatti, mentre nelle frasi autonome esso acquisisce un valore semantico, in quelle subordinate ha solo valore sintattico, in quanto serve esclusivamente a segnalare “il carattere di dipendenza dell’enunciato in cui appare” (Sgroi, 2013:62) e la sua scelta è condizionata dalla congiunzione che introduce la frase.

3.1 Subordinazione e la scelta dei tempi

Uno dei problemi centrali della subordinazione è rappresentato dalla scelta e dalla concordanza del tempo verbale. Come già accennato nel paragrafo 1, infatti, la scelta del tempo verbale nella proposizione dipendente è strettamente condizionata dal tempo della principale, con la quale essa instaura una precisa relazione temporale, che può essere di anteriorità, contemporaneità o posteriorità. Tale problema riguarda soprattutto le proposizioni esplicite, mentre nel caso delle subordinate implicite essa risulta molto meno problematica. Serianni scrive:

Il costrutto implicito ha minore latitudine temporale. L’infinito nella sua forma verbale (non come funzione semantica) può indicare contemporaneità (“penso di essere saggio”) o anteriorità (“penso di essere stato saggio”) ma non posteriorità; così come il gerundio (contemporaneità: “arrivando, ho visto qualcosa di nuovo”); anteriorità: “essendo arrivato presto, si fermò fuori dal paese […]” (Serianni, 2006:547)

La consecutio temporum in italiano segue alcune norme ben precise, che si applicano anche con una certa rigidità a seconda del tipo di rapporto temporale esistente tra il tempo della principale e il tempo della subordinata, ossia tra il tempo assoluto e il tempo relativo4. Essendo il tempo assoluto il solo punto di riferimento, rispetto al quale collocare l’azione della subordinata, i casi che possono presentarsi sono due:

a) La frase principale è all’indicativo presente;
b) La frase principale è all’indicativo passato.

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In questo primo caso, la contemporaneità dell’azione secondaria può essere espressa anche con il futuro semplice indicativo; l’anteriorità dell’azione, invece, può essere realizzata anche mediante l’utilizzo del congiuntivo imperfetto, se si vuole sottolineare che l’azione indicata dal verbo è una condizione che si presenta con regolarità e non un fatto puntuale, singolo (Chiappini & De Filippo, 2014).

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Ci sono, tuttavia, dei casi in cui nella frase principale, al posto del verbo all’indicativo, ci sia il condizionale (presente o passato) di un verbo volitivo, ossia di un verbo indicante volontà, desiderio o opportunità (ad es: vorrei, mi sarebbe piaciuto, avrei voluto, ecc.…). In presenza di tali verbi, nella subordinata verrà utilizzato il congiuntivo imperfetto o trapassato.

(1) Sarebbe meglio che ti chiarissi le idee.
(2) Se l’avessi saputo prima non avrei comprato la scheda!

3.2 Classificazione delle subordinate

La proposta di classificazione operata in questo capitolo propone, conformemente agli obiettivi dell’intero lavoro, una ripartizione abbastanza pratica e funzionale, poiché basata interamente sul grado di obbligatorietà dell’uso del congiuntivo nella secondaria. Si distingue, a tal proposito, tra subordinate con congiuntivo obbligatorio, subordinate con possibile alternanza tra congiuntivo e indicativo (talvolta anche condizionale) e subordinate richiedenti solo l’indicativo.

3.2.1 Subordinate con congiuntivo obbligatorio

In questa prima categoria rientrano tutte quelle subordinate, che ammettono come unico modo verbale possibile il congiuntivo. Il suo utilizzo è però circoscritto alla sola forma esplicita, richiedendo la forma implicita solo l’impiego di modi indefiniti, primo fra tutti l’infinito. Tra queste subordinate si annoverano: le proposizioni finali, concessive, eccettuative, esclusive e ipotetiche.

3.2.1.1 Proposizioni finali

Così come si evince dal nome, le proposizioni finali sono quelle che indicano “il fine, lo scopo, l’intenzione verso i quali si orienta la proposizione reggente” (Serianni, 2006: 580). A differenza di altre secondarie, come le completive, in cui la modalità della frase dipende direttamente dalla natura semantica dell’elemento introduttivo, nelle finali, in qualità di frasi circostanziali o “extranucleari” (Renzi& Salvi, 2006:426) dipende invece dalla congiunzione subordinante. Nella forma esplicita esse sono introdotte da congiunzioni o locuzioni congiuntive, quali: perché, affinché, a fare sì che, acciocché o anche semplicemente che.

(1) Per i testi greci e latini, è quasi sempre riportato in nota il passo in lingua originale affinché sia più semplice il confronto per chi ha dimestichezza con tali lingue.
(2) E poi ci andai domandandomici perché non volesse conoscermi.

Nella lingua parlata, tuttavia, si assiste in misura sempre più crescente ad una sorta di “declassamento” della forma esplicita nella subordinata finale a favore della forma implicita, che tende a sostituire la prima anche in casi in cui non ci sia alcuna identità tra i soggetti della reggente e della finale.

(1) Te l’ho detto solo perché tu ci riflettessi un po’su à Te l’ho detto solo per fartici riflettere un po’ su

3.2.1.2 Proposizioni concessive

Funzione principale di questa secondaria è quello di esprimere una circostanza, nonostante la quale si verifica l’azione indicata dal verbo nella reggente. Indica, in sostanza, il concretizzarsi di una conseguenza inconsueta, diversa da quella che, per logica, dovrebbe derivare dal fatto enunciato nella subordinata (Serianni, 2006).

a) Benché ci fosse una buona unità, vi era anche una grande indipendenza di pensiero.

Da quanto appena detto si può dunque evincere che il rapporto logico che si instaura tra questa subordinata e la reggente si discosta notevolmente da quello causa-effetto, che di solito è alla base e coordina tutte le altre subordinate, ma si tratta più propriamente di un rapporto di “opposizione”. Salvi &Vanelli (2004) chiamano tali subordinate “proposizioni concessive fattuali”, distinguendole dalle “condizionali fattuali”, in cui “la conseguenza (espressa nella frase matrice) si verifica, contrariamente alle normali attese, indipendentemente dal fatto che la condizione (espressa nella subordinata) si verifichi o meno” (p.280).

Nella forma esplicita, la proposizione concessiva fattuale può essere introdotta da congiunzioni e locuzioni congiuntive. Tra le più comuni: benché, malgrado, malgrado che, nonostante, nonostante che, per quanto, quantunque, sebbene, seppure, ancorché, quand’anche, con tutto che; la condizionale concessiva è invece introdotta da anche se o pure se, a cui si affiancano talvolta anche nemmeno/neanche/ neppure se.

(1) Nonostante lo avessi messo in guardia, non mi ha ascoltata.
(2) Non mi sembra che si sia comportato correttamente, malgrado abbia delle scusanti.
(3) Questa facoltà resterà aperta anche se non dovesse essere usata.
(4) Anche se poi sporco in casa e devo pulire, devo spalare la neve.
(5) Avrebbe voluto coccolarlo, anche se non poteva.

Com’è possibile osservare dagli esempi, la congiunzione anche se viene usata molto frequentemente anche con l’indicativo, ammettendo in alcuni casi anche delle “combinazioni miste” con indicativo e condizionale. In questo caso però, a differenza di altre proposizioni, l’alternanza modale non rappresenta una “variante libera”, determinata cioè dal grado di colloquialità del contesto enunciativo, ma dipende essenzialmente dalla reggenza della congiunzione. Lo stesso non si potrebbe dire per le altre congiunzioni (ad es. benché), con le quali una possibile combinazione con l’indicativo è dovuta solamente alle tendenze esemplificative7 del parlato, oggi nettamente in aumento, di cui gli esempi tratti da NUNC rappresentano una conferma.

(6) Non ha detto nulla alla Sabri, benché era di nuovo gelosa della sua bella amica.
(7) Kiarostami, benché racconta il tutto in un ambiente retrogrado, riesce ad essere moderno.

Possono avere funzione concessiva anche alcuni aggettivi, pronomi relativi indefiniti o avverbi di luogo, che richiedono il congiuntivo e introducono più propriamente una relativa con valore concessivo. Si parla in questo caso di proposizioni “a-condizionali”, il cui nome è dovuto proprio al carattere indefinito di tali pronomi, che non definiscono pertanto una condizione precisa, ma ne elencano tutte le eventuali realizzazioni (Salvi& Vannelli, 2004).

(8) Comunque sia andata, tocca a noialtri rimediare!
(9) Ovunque ci sia io, non ci sono loro!
(10) Qualunque pratica stiate seguendo, continuate finché non è la pratica a lasciarvi.
(11) Uno specchio riflette qualunque cosa ha di fronte.

Nel corpus è stato osservato che la stessa costruzione può presentarsi anche all’indicativo, come dimostra l’ultimo esempio, sebbene la norma preveda il solo ed esclusivo uso del congiuntivo. Con l’indicativo, però, la frase perde il suo valore concessivo, assumendo per lo più quello di una proposizione relativa (Serianni, 2006).

A queste congiunzioni si aggiungono, infine, anche alcuni costrutti con sfumatura elativa, quali: per+ aggettivo +che +congiuntivo del verbo essere; per+ avverbio/ verbo+ che+ congiuntivo del verbo essere:

(12) Ritengo che, nessun ostacolo, per serio che sia, potrebbe scusarli dall’abbandonare i loro disegni.

3.2.1.3 Proposizioni esclusive

Tale proposizione indica generalmente un fatto o un’azione che non si sono verificati e che, pertanto, risultano esclusi dall’azione espressi nella reggente. Nella forma esplicita, la proposizione è introdotta da senza che, che richiede obbligatoriamente l’uso del congiuntivo, appunto per sottolineare il mancato concretizzarsi di una precisa circostanza:

Es.

(1) Nessuna dittatura è possibile senza che una parte cospicua del popolo la sostenga.
(2) Quante intese potrebbero essere firmate senza che si sappia neanche da chi?

3.2.1.4 Proposizioni eccettuative

Come si può evincere dal nome stesso, le proposizioni eccettuative esprimono un’eccezione, un condizionamento, che applicano una restrizione a quanto affermato nella reggente. In altre parole, esse introducono una circostanza che potrebbe impedire, o quanto meno modificare, ciò che si dice nella principale. Nella forma esplicita, le locuzioni congiuntive introduttive più comuni sono: eccetto che, salvo che, tranne che, fuorché, se non che, a meno che (non).

(1) Non patteggiare mai, salvo che si venga colti in flagranza di reato.
(2) Il problema è che nessuno può partecipare a meno che riceva questa e-mail.
(3) Salvo si voglia rubare al solo scopo di farlo.

Molte volte, come nell’ultimo esempio, le locuzioni con valore eccettuativo possono essere utilizzate anche omettendo il “che”, la cui assenza implica obbligatoriamente l’utilizzo del congiuntivo, in quanto unico indicatore della “dipendenza sintattica” della frase (Serianni, 2006).

Nonostante il congiuntivo sia il modo verbale maggiormente utilizzato con questo tipo di secondaria, nel corpus sono stati trovati anche esempi all’indicativo, sebbene si tratti di un fenomeno molto meno frequente. L’uso del modo indicativo, infatti, conferisce alla frase un effetto di maggiore certezza e concretezza (come se si trattasse di una circostanza reale), privandola di quella sfumatura di eventualità che il congiuntivo contrariamente trasmette.

(4) Non v’è alcuna differenza tra te e loro, eccetto che essi sono tuoi servi e da te creati.
(5) […] valse più un lampo di luna a svelargli […] la medesima scena, quasi, di poc' anzi a teatro, salvo che stavolta non si trattava di morti dolorose.

3.2.1.5 Proposizioni ipotetiche o condizionali

La subordinata ipotetica o condizionale è quella che esprime la condizione, dalla cui eventuale realizzazione potrebbe dipendere il verificarsi di quanto espresso nella reggente. Tale proposizione viene generalmente classificata come una delle subordinate più complesse, soprattutto in virtù dello stretto legame logico-sintattico che essa instaura con la reggente. In combinazione con una principale, infatti, la subordinata ipotetica, dà vita ad un costrutto particolare, che prende il nome di periodo ipotetico, in cui, per convenzione, la prima prende il nome di apodosi e la seconda di protasi (Serianni, 2006).

Le congiunzioni o locuzioni congiuntive più comuni che la introducono sono: se, qualora, nel caso che, nel caso in cui, se anche, seppure, casomai, ove, dove laddove, purché, a condizione che, a patto che.

a) Se ciò servisse per regalargli un briciolo di gioia e felicità, ne saremmo onorati.
b) Se tu fossi stato furbo, mi avresti detto i gruppi che piacciono a te.

Talvolta è anche possibile omettere la congiunzione introduttiva, il che causa una sorta di “giustapposizione di apodosi e protasi” con conseguente rinforzo della componente volitiva del soggetto. Con l’omissione dell’elemento introduttore, infatti, la protasi si trasforma in una frase all’imperativo, seguita da una frase introdotta da un elemento che sia in contrasto con quanto detto prima, quali sennò o altrimenti (Serianni, 1997).

(1) Non agire quando l’ira ha il sopravvento, altrimenti te ne pentirai!

Per quanto riguarda i modi verbali, invece, al pari di molte altre subordinate (vedi paragrafo 2.4), anche quella ipotetica ammette l’utilizzo del modo indicativo, oltre al semplice congiuntivo. Qui, però, ci troviamo di fronte ad una situazione particolare, dove l’utilizzo di un modo anziché di un altro non è frutto di ragioni stilistiche o variazioni linguistiche particolari, né tantomeno è legata all’uso di una classe specifica di verbi che ne condiziona la scelta, ma determina il tipo e il grado di probabilità del periodo stesso. A seconda del modo presente nella subordinata, infatti, si distinguono tre tipi di periodo ipotetico, ognuno dei quali con un grado di probabilità differente: periodo ipotetico della realtà, della possibilità e dell’irrealtà. Il congiuntivo fa la sua comparsa esclusivamente negli ultimi due, mentre nel primo l’unico modo ammesso è l’indicativo.

Nel periodo ipotetico della possibilità, l’ipotesi o la condizione è considerata, invece, come possibile, poco probabile o, talvolta, irreale. Pertanto, l’unico modo impiegato nella protasi è il congiuntivo e, più precisamente il congiuntivo imperfetto, quasi sempre associato al condizionale presente nell’apodosi. Proprio grazie alla presenza del congiuntivo, in questo periodo ipotetico, è possibile incontrare, oltre al se, anche tutte le altre congiunzioni o locuzioni introduttive elencate all’inizio del paragrafo, dopo le quali non è assolutamente ammesso l’uso dell’indicativo.

(1) Se fossi lì potremmo anche parlarne.
(2) Qualora non esistesse, penso che sarebbe una cosa utile.

In questo periodo ipotetico, la conoscenza del contesto da parte del parlante gioca un ruolo molto importante per la valutazione del grado di possibilità della condizione espressa nella subordinata. Quando la condizione è al congiuntivo imperfetto, può riferirsi o al presente o al futuro. Nel primo caso la condizione è da intendersi quasi sempre come irreale; se riferita al passato, invece, può essere sia possibile che irreale a seconda della situazione (Mancini& Marani, 2014).

Questo tipo di costrutto, inoltre, presenta rispetto agli altri due una maggiore flessibilità nella scelta dei tempi verbali, ammettendo oltre al congiuntivo anche il ricorso ad altri tempi alternativi dell’indicativo, tra cui principalmente l’imperfetto o il trapassato.

(1) Se lo sapevo prima non lo compravo brandizzato!
(2) Se eri andato, era meglio.

Queste due alternative, che Sgroi (2013) attribuisce ad una variazione soprattutto diastratica oltre che diafasica della lingua, sono utilizzate largamente nella lingua parlata, come viene confermato dall’analisi dei campioni in NUNC, in cui molti testi con esempi di conversazione quotidiana (soprattutto chat) ricorrono a tale combinazione piuttosto che a quella canonica. In particolare, sia l’imperfetto che il trapassato esprimono un’ipotesi non realizzata nel passato, ciò che Serianni (1997/2006) definisce tecnicamente “irrealtà nel passato”.

L’ultimo periodo ipotetico è quello dell’irrealtà, che deve il suo nome principalmente all’impossibilità di realizzazione (sia nel passato che nel presente) della condizione espressa nella protasi. Il modo utilizzato è, dunque, anche qui il congiuntivo ma, questa volta, al trapassato (per marcare appunto la mancata realizzazione della condizione) e seguito dal condizionale nella principale, o al presente o al passato a seconda del riferimento temporale dell’azione.

1) Se avessi approfondito tali argomenti, lo avresti sicuramente notato.
2) Se avessi scritto quel pezzo usando la sola fantasia, sarei un genio della letteratura.

In NUNC è stato possibile evidenziare anche la presenza di periodi ipotetici particolari, che Serianni (1997) definisce “misti”, poiché caratterizzati dall’ associazione di modi verbali, normalmente non prevista dalle norme linguistiche. Una delle associazioni più comuni nel parlato è quella di indicativo e congiuntivo, rispettivamente in apodosi e protasi.

(1) Se avessi problemi vado a minacciare il vecchio Roberto personalmente.
(2) Se così fosse, è un’ulteriore prova di poca convinzione!

3.3 Subordinate che richiedono sia il congiuntivo che indicativo

Questo secondo gruppo include tutte quelle subordinate che ricorrono al congiuntivo solo in alcuni contesti e per trasmettere una particolare sfumatura di significato rispetto all’indicativo. Mentre nella maggior parte dei casi tale alternanza è attribuibile ad una variazione diafasica (formale/informale) o anche diamesica (scritto/parato) della lingua, rappresentando pertanto una scelta stilistica “libera”, in altri dipende esclusivamente dalla reggenza della congiunzione che introduce la secondaria, configurandosi come “variante combinatoria” (ad es. nelle consecutive).

L’uso dell’indicativo al posto del congiuntivo, inoltre, conferisce alla frase una lieve sfumatura semantica: l’indicativo, infatti, sembra privare la frase del suo carattere “secondario”, quindi di minore rilevanza a livello contenutistico rispetto alla principale, collocandola quasi allo stesso piano di quest’ultima (Sgroi, 2013). Subordinate che ammettono una tale alternanza sono: le completive, le interrogative indirette, le causali, le temporali, le consecutive, le comparative, le limitative e le relative.

3.3.1 Proposizioni completive

Con il termine “completive” o “argomentali” (Salvi& Vannelli, 2014) si indicano in italiano tutte quelle secondarie, che svolgono nel periodo la funzione di complemento, ossia completano con le informazioni in esse contenute la frase da cui dipendono. In base alla loro funzione logico-sintattica specifica, esse si articolano generalmente in tre sottocategorie: le oggettive, le soggettive e le dichiarative e sono introdotte unicamente dalla congiunzione che. La scelta del modo verbale da utilizzare nella subordinata, invece, è strettamente vincolato dalla semantica e del verbo o dell’elemento introduttivo presente nella principale oltre che dalla reggenza sintattica delle congiunzioni subordinanti nelle proposizioni circostanziali, il che rafforza ulteriormente l’idea del congiuntivo come modo verbale dipendente e “sottoposto a numerose restrizioni” che ne regolano l’utilizzo (Schwarze, 1995).

Renzi/Salvi (1991) e Schneider (1999), sempre basandosi sulla semantica del verbo o dell’elemento introduttivo della completiva e sulla tradizionale ripartizione di tali proposizioni in frasi soggetto e frasi complemento, hanno operato una proposta di classificazione alternativa, che prevede essenzialmente l’articolazione del modo congiuntivo in tre principali tipologie: il congiuntivo volitivo, congiuntivo epistemico o dubitativo e il congiuntivo fattivo o di valutazione. Tra questi: il congiuntivo volitivo è quello che dipende da espressioni indicanti la volontà del soggetto e che, dunque, non esprime alcun fatto concreto, poiché lo stato di cose indicato nell’enunciato non è stato ancora realizzato:

(1) Non voglio che tua sorella resti con le mani in mano.

Il dubitativo, è quello che si trova dopo verbi o espressioni indicanti dubbio, negazione (espressioni indicanti aspettativa) o anche quelli usati per esprimere opinioni e convinzioni personali e che indica “la valutazione fatta dal parlante, e dal corrispondente soggetto della predicazione, della validità di un’asserzione oppure della possibilità di esistenza di uno stato di cose” (Renzi& Salvi, 2006:418). Questo tipo di congiuntivo, dunque, è quello che maggiormente rispecchia il valore epistemico insito nella natura stessa di questo modo verbale

(2) Alcuni dubitano che la seconda lettera attribuita a Pietro sia effettivamente stata scritta da lui.

Il congiuntivo fattivo o di valutazione è, infine, quello utilizzato in enunciati, in cui i fatti della subordinata non siano affermati come veri, ma presupposti inerentemente come fatti già accaduti, indipendentemente cioè da un ulteriore contesto, tipo quello della sovraordinata. Non a caso esso si trova rigorosamente dopo verbi quali, capire, comprendere, odiare, rimproverare, ma anche dopo verbi come meravigliarsi, stupirsi, vergognarsi, offendersi, scusarsi, ringraziare, ecc.

1) Mi meraviglio che ci siano ancora ragazzi che vanno a caccia.

3.3.1.1 Proposizioni oggettive

Come si può dedurre dal nome, tali subordinate fungono da complemento oggetto della frase principale e possono essere introdotte da un verbo (scelta più frequente tra i parlanti), da un sostantivo e, più raramente, anche da un aggettivo, localizzati prima del che:

(1) Sento che mi nascondi qualcosa!
(2) La sensazione che tu mi nasconda qualcosa mi tormenta!
(3) Era consapevole che tutti lo stavano guardando.

La natura semantica di ognuno di questi elementi, in genere, ci suggerisce quale sia il modo verbale adatto da inserire nella secondaria. In particolare, nel costrutto esplicito, si ricorre al congiuntivo dopo verbi o sostantivi che esprimono una volontà (volere, esigere, ordinare, permettere, lasciare, disporre, pregare, negare, ecc.…), un’aspettativa (desiderare, temere, avere paura, dubitare, rallegrarsi, attendere, augurare, immaginare, ecc. …) o un’opinione personale/ considerazione (credere, pensare, ritenere, supporre, aspettarsi, convinzione, credenza, dubbio, timore, ecc. …):

a) Voglio che siate più cortesi con vostra nonna!
b) Spero che tu non abbia dimenticato ancora una volta l’ombrello a scuola!
c) Sonia ha sempre avuto il dubbio che il marito la tradisse.

Di tutti questi verbi, temere e avere paura sono quelli che ammettono qualche eccezione. Essi infatti, così come è stato osservato in NUNC, si presentano anche in combinazione con l’indicativo futuro (o condizionale con frasi al passato) non necessariamente solo in contesti di alta informalità. Renzi e Salvi (2006) attribuiscono questa combinazione “alternativa” al fatto che con l’indicativo il parlante voglia esprimere “che si crede più o meno fermamente alla realizzazione del contenuto della frase dipendente” (p.425).

(1) Temo però che ciò non succederà mai.
(2) Temo che abbia voluto usare la vicenda per sollevare il velo sui precedenti casi.

Della Valle/Patota (2006) osservano che con alcuni verbi di opinione o aspettativa il “che” introduttivo può anche essere omesso, rendendo quasi obbligatorio l’uso del congiuntivo nella secondaria.

(1) “Spero [che] ora sia più comprensibile”

Il congiuntivo, infatti, in questi casi è l’unico che fornisca informazioni circa la funzione sintattica della frase in qualità di proposizione secondaria.

Da un’attenta analisi effettuata in NUNC in merito al comportamento linguistico di quest’ultima categoria verbale, è stato possibile osservare come molte delle norme prescrittive relative a tali verbi siano sottoposte, in realtà, a numerose oscillazioni e variazioni. Come si osserva negli esempi estrapolati dal corpus, tali variazioni interessano principalmente i verbi di opinione e pensiero, dopo i quali molto frequente è l’uso dell’indicativo al posto del congiuntivo, soprattutto in contesti comunicativi poco curati e informali.

(1) Credo che hai ancora ancora molto da dire.
(2) Se penso che è un gioco allora sto allo scherzo.

Si tratta, pertanto, di “fenomeni di italiano parlato”, riconducibili (come già affermato in precedenza), in prospettiva sociolinguistica, a una variazione diafasica della lingua ed esclusi obbligatoriamente dai testi in forma scritta. La sostituzione del congiuntivo con l’indicativo dopo tali verbi non è, tuttavia, priva di effetti. L’indicativo infatti modifica, seppur lievemente, il senso originario della frase, comportando la perdita di quel senso di incertezza e soggettività, insito nella semantica stessa del congiuntivo, a favore di una maggiore veridicità e certezza dello stato di cose espresso nella secondaria. Esso è particolarmente frequente con la seconda persona singolare, sebbene si sia velocemente esteso anche a tutte le altre (Sgroi, 2013).

Dopo verbi indicanti giudizio o percezione che introducono per lo più una fattualità, uno stato di cose in quanto tale, la norma prevede, invece, l’utilizzo dell’indicativo. Tra questi si annoverano verbi come: accorgersi, affermare, dichiarare, dimostrare, insegnare, percepire, promettere, notare, sentire, intuire, udire, vedere, scoprire, scrivere, ecc. …. Lo si può trovare anche dopo alcuni sostantivi o aggettivi appartenenti sempre alla stessa sfera semantica, come: certezza, conferma, constatazione, evidente, chiaro, consapevole, ecc.

(1) Quando cominci a scrivere ti accorgi che ciò che c’è di splendido nelle fiabe è l’assoluta libertà.
(2) Nessuna macchina può darci la certezza che un essere umano è davvero morto.
(3) Siamo consapevoli che non esiste una guerra giusta perché la giustizia non si ottiene mettendo l’uno contro l’altro.

In alcuni contesti specifici, i verbi appartenenti a quest’ultima categoria possono reggere anche il congiuntivo al posto dell’indicativo, rendendo possibile talvolta anche una “duplice reggenza”. Serianni(2006) e Mancini& Marani (2015) propongono un elenco dei casi più comuni (riproposti qui di seguito), per ognuno dei quali sono stati estrapolati dal corpus esempi di testi generici che confermano tale sostituzione.

a) In una interrogativa diretta (con tutti i verbi sovra elencati, ad eccezione di quelli di percezione o dichiarazione), in cui il congiuntivo trasmette un maggiore senso di stupore e l’incertezza di chi formula la domanda:

“Ciò dimostra quanto abbia influito la teologia sui traduttori”:

b) Se la frase assume un senso indeterminato:

“Si dice che alle ragazze piaccia tanto andare in bici;

c) Se la interrogative indiretta è introdotta da un verbo volitivo:

“La teoria di Darwin è quella che vuole dimostrare come l’uomo discenda dalla scimmia”

d) Se nella frase c’è una negazione:

“Non sono affatto sicuro, che ti possano aiutare in caso di bisogno”;

e) Con l’espressione non sapere che/ non sapere in una interrogativa indiretta:

” Non so quanto ti possa interessare”

“Non sai neanche se è morto”

f) Se la subordinata è anteposta alla principale:

“Che gli italiani avessero apprezzato l’opportunità di ristrutturare casa approfittando di condizioni fiscali agevolate era già chiaro”

“Che sei un mitomane s'è capito”

Nell’ultimo esempio, l’anteposizione della subordinata rappresenta un costrutto marcato con funzione tematizzante, serve cioè a mettere in evidenza l’elemento della frase già noto e non a comunicare un’informazione nuova, rematica. L’uso del congiuntivo al posto dell’indicativo permette, dunque, di rimarcare tale funzione, essendo di solito l’indicativo il modo utilizzato per l’asserzione di qualcosa (di solito il rema della frase) (Renzi& Salvi, 2006).

Un’eventuale alternanza dei due modi verbali è inoltre possibile dopo verbi ed espressioni indicanti sentimenti e stati d’animo, come: essere felice, contento, meravigliarsi, dispiacersi, godere, rammaricarsi, ecc. Dopo tali verbi, infatti, la scelta dell’uno o dell’altro modo verbale non è altro che (per riprendere un concetto di Sgroi) una “variante libera”, fortemente condizionata cioè dal contesto di enunciazione e dal suo grado di formalità oltre che da una scelta stilistica del parlante.

a) Giuseppe non si è meravigliato che la donna avesse un bambino.
b) Mi meraviglio che ancora regalate soldi a chi non meriterebbe per il servizio.

Degno di considerazione è, infine, il comportamento di alcuni verbi con più di un significato, a seconda del quale varia anche il modo del verbo richiesto (Della Valle& Patota, 2006). Appartengono a questa categoria verbi come: guardare, calcolare, decidere, ammettere, pensare, stabilire, ecc. … Si prenda in esempio il verbo “calcolare”, che nel significato di “fare un calcolo, valutare” è sempre seguito dall’indicativo, mentre nel significato di “supporre, dedurre” dal congiuntivo. Gli esempi tratti dal corpus confermano questa duplice “reggenza” verbale:

(1) Si calcola che in Italia siano 5 mila le bambine a rischio ogni anno.
(2) Calcola che per un attore secondario può essere importante conoscere scrittori, perché la loro possibilità di far strada è legata ad amicizie.

Di notevole importanza è anche il caso del verbo dire che normalmente, in qualità di verbo denotante uno stato di cose fattivo, è seguito dall’indicativo, presupponendo che “la persona denotata dal SOGGETTO8 della predicazione creda anch’essa alla propria affermazione riprodotta dal parlante e che questa, inoltre, sia vera” (Renzi& Salvi, 1991:439). Quando, invece, il verbo dire denota piuttosto che uno stato di cose una supposizione del parlante, assumendo un significato simile a pensare, può essere seguito sia dal congiuntivo che dall’indicativo:

(1) Il padrone di casa dice che siamo in arretrato di sei mesi con l’affitto.
(2) […] alla fine direi sia stata ben pensata dall’amministrazione comunale.
(3) Direi che è sempre meglio leggere e informarsi il più possibile.

3.3.1.2 Proposizioni soggettive

Le proposizioni soggettive svolgono nel periodo la funzione di soggetto, completano cioè il significato della principale mediante l’attribuzione al verbo in essa presente di un soggetto, in questo caso rappresentato dall’intera proposizione. Molto spesso, infatti, la frase principale non ha un proprio soggetto, caso che si verifica specialmente in presenza di espressioni impersonali.

In qualità di completive, anche le soggettive sono introdotte dalla congiunzione che, preceduto da verbi o aggettivi, e la scelta del modo verbale nella secondaria è condizionata oltre che dall’aspetto semantico degli elementi introduttivi, anche dalla dimensione diafasica (registro) e diamesica (scritto/ parlato) del contesto enunciativo (Serianni, 2006).

A tal proposito, l’uso obbligatorio del congiuntivo nel costrutto esplicito si attesta dopo verbi impersonali indicanti apparenza (sembrare, parere, risultare, apparire);verbi impersonali che esprimono necessità (bisognare, occorrere, valere la pena, bastare, è buona norma che, è necessario, è doveroso, convenire, ecc.); quelli che esprimono uno stato d’animo (piacere, dispiacere, seccare , stupire, fare paura, fare pena); dopo aggettivi o espressioni con valore valutativo o affettivo (è bello, è brutto, è incredibile, è essenziale ecc.); o espressioni indicanti possibilità o impossibilità (è possibile, è impossibile, è probabile, ecc.) (Mancini& Marani, 2015).

(1) In questo paese pare che ci sia ancora libertà di opinione.
(2) Perché l’UE diventi il numero uno della ricerca, bisognerebbe che creasse i propri mercati.
(3) Mi stupisce che Maggio al tempo di cui parli incontrasse giocatori anche più forti di lui!
(4) È impossibile che la nostra opera possa rappresentare un pericolo per la pace.

Molti di questi verbi, inoltre, possono essere utilizzati anche con il soggetto logico al dativo, che funge da indicatore dello “eventuale portatore di volontà” della frase (Renzi& Salvi, 1991:423). In particolare, l’aggiunta del pronome indiretto a quelli impersonali di apparenza li priva del loro significato originario e conferisce loro un’accezione nuova, che permette di accostarli ai verbi di pensiero e opinione.

(5) Non mi pare abbiano inventato nulla di nuovo o di particolare.
(6) Mi sembra che non si possa fare.
(7) Mi pare strano che bisogna arrivare ad accapigliarsi per essere commissario d’esame.
(8) Mi sembra che hai chiari problemi di interpretazione di ciò che vi è scritto.

Gli ultimi due esempi del corpus dimostrano che, esattamente come accade per i verbi di opinione, anche questi nel parlato informale vengono utilizzati con l’indicativo, sebbene la modalità espressa da quest’ultimo sia in contrasto con la semantica dei verbi stessi. Schneider (1999), infatti, sulla base degli studi effettuati da Jensen (1970), afferma che sembrare e parere sono verbi normalmente “concomitanti con il congiuntivo nella clausola soggetto” per cui “seguiti dall’indicativo darebbero luogo a un enunciato tendente verso la paratassi” (p.109).

La stessa tendenza la si osserva però anche per molti degli altri verbi precedentemente elencati, oltre che per alcune espressioni impersonali, appartenenti per lo più al repertorio della comunicazione orale, che Serianni (1997) cataloga tra quelle con congiuntivo obbligatorio, quali: non che, mica che, non è che, è ora che, è tempo che, ci manca poco/solo che.

(9) Non stupisce che nelle Fiandre cessa la caccia alle streghe con l’avvento della dominazione spagnola.
(10) Basta che premo su e quello mi mostra o suona la traccia successiva.
(11) Ci manca solo che qualcuno mi denunci per minacce!
(12) Ci mancava solo che diceva che non è compito della segreteria dare informazioni!

È richiesto l’uso dell’indicativo, invece, dopo verbi che esprimono un fatto certo e indiscutibile, una constatazione, normalmente introdotti da verbi, quali: si sa, si afferma, risulta, fatto sta che; e da locuzioni aggettivali e sostantivali: è chiaro, è certo, innegabile, il guaio è che, il suo scopo è, è vero ecc.).

(1) Il bello è che alla fine dell’anno gli ispettori […] hanno approvato tutto qualunque fosse stato il livello di qualità raggiunto.
(2) È ovvio che i politici di fronte a questi discorsi in primo luogo si appisolano perché non li capiscono.

Sebbene per questa ultima categoria di elementi l’indicativo sia il modo verbale più frequente, non è escluso tuttavia che, in alcuni casi, dopo di essi possa comparire anche il congiuntivo. In tali circostanze il significato della frase assume una sfumatura di significato lievemente differente, rispetto alla frase originale all’indicativo, volendo indicare “che i fatti enunciati nella secondaria non sono stati verificati o sono semplicemente frutto di un opinione” (Mancini &Marani, 2015:12).

(3) È ovvio, che chi ha questa opinione contesti questa ricetta.

3.3.1.3 Subordinate dichiarative

Di natura particolarmente affine alle “argomentali” le dichiarative sono subordinate che forniscono delle precisazioni in merito ad un elemento (di solito un nome o un pronome dimostrativo) contenuto nella reggente. Anch’esse, come le completive, sono introdotte dalla congiunzione “che”, il che rende particolarmente difficile discernere le une dalle altre. Delle volte, però, il riconoscimento della subordinata (soprattutto se in forma scritta) può essere facilitato dall’inserimento di alcuni segni di interpunzione, quali i due punti o la virgola, che ne mettono meglio in risalto la funzione (Serianni, 1997):

(1) Pensa che io avevo pensato l’opposto, cioè che Marta potesse innamorarsi di lui.

Anche per quanto concerne il modo verbale, la dichiarativa si comporta esattamente come le oggettive, ammettendo sia il congiuntivo che l’indicativo, a seconda della modalità implicitamente richiesta dal verbo o dall’elemento introduttivo nella reggente e/o alle regole delle consecutio temporum.

(2) Ho l’impressione che nemmeno la tragedia più grande riesca a far recuperare a certa gente lucidità e buon senso.
(3) Nella peggiore delle ipotesi, che l’Amstrad non rilasci l’aggiornamento del firmware […]
(4) Questo significa che noi verremo a riprenderla qui alla stazione venerdì sera.
(5) Ho l’impressione che non verrà.

In NUNC, però, si osserva come, anche in frasi con “congiuntivo grammaticalmente necessario” Sgroi, 2013:112), in registri poco controllati della lingua si ricorra spesso e volentieri all’indicativo, seppur in un “contrasto semantico” con l’elemento reggente:

(6) Avevo l’impressione che i formuloni scritti alla lavagna li capiva solo il prof.
(7) Non v'è dubbio che la realtà può essere modificata o migliorata.

3.3.1.4 Subordinate interrogative indirette

Delle interrogative indirette si è già accennato nel paragrafo sulle subordinate oggettive (vedi par. 2.3.1.1), di cui queste rappresentano una sorta di variante. Renzi& Salvi (1991) e Salvi & Vannelli (2004) le classificano, infatti, come proposizioni argomentali, che esprimono, a differenza di quelle ordinarie, una domanda o un dubbio in forma indiretta. Esse dipendono generalmente da verbi, sostantivi o aggettivi indicanti domanda o dubbio, quali chiedere, domandare, dire, sapere, dubbio, scoprire, consapevole, ecc., e sono introdotte da se, quando alla domanda diretta è possibile rispondere con sì/no (domanda totale); da pronomi o avverbi interrogativi con valore di congiunzione (chi, come, quando, perché, ecc.) quando, invece, la risposta alla domanda diretta si riferisce solo ad un elemento della domanda e fornisce, così, l’informazione nuova dell’enunciato (Mancini& Marani, 2014).

I modi verbali che queste subordinate ammettono sono 3: congiuntivo, indicativo e talvolta anche condizionale. Dall’analisi dei campioni in NUNC, tuttavia, è emerso come ognuno dei verbi sovra elencati si comporti differentemente dagli altri, “prediligendo” a seconda del contesto o della propria natura semantica un modo verbale piuttosto che l’altro. A tal proposito, sulla base degli esempi che sono stati selezionati dal corpus, si può affermare che in gran parte delle interrogative indirette rette da una reggente al presente, a prescindere dalla natura verbo presente nella reggente, il modo utilizzato con maggiore frequenza è l’indicativo.

(1) Noi sappiamo cosa c’è scritto sull’ordinanza.
(2) Vi chiedo se conoscete qualcuno o se voi stessi potrete aiutarlo a trovare lavoro.
(3) Domandano spesso, come mai la satira è tutta di sinistra.

In tali casi, però, l’uso del congiuntivo non è totalmente escluso: infatti, con chiedere e domandare (più che con gli altri verbi) abbastanza frequente è anche l’uso congiuntivo:

(4) […] mi risponde una signorina alla quale chiedo a che punto fosse la mia pratica.
(5) […] al che uno si domanda, cosa cavolo li mettano a fare in esposizione da consultazione, bah!

In periodi con la principale al passato, al contrario, Renzi &Salvi (1991) sottolineano come il parlante possa indifferentemente scegliere tra l’uno e l’altro modo verbale, senza che la frase subisca alcun cambiamento a livello semantico. Una tale “alternanza modale” è stata ricercata nel corpus, nel quale i numerosi esempi osservati hanno dimostrato come la frequenza di utilizzo dell’uno e dell’altro modo in frasi di questo tipo sia pressoché la stessa. Si riportano alcuni esempi:

(6) Mi sono chiesto perché andavo ancora ai party.
(7) La cosa è molto curiosa e mi domandavo cosa vi accomunasse.
(8) Neppure io sapevo cosa fosse quando sono approdato sui NG.

L’uso del congiuntivo in frasi interrogative indirette risulta, invece, maggiormente adeguato in tre casi particolari, ovvero: in frasi negative, in frasi marcate con anteposizione della subordinata o in presenza di verbi che richiedono il congiuntivo nella reggente:

(9) Ripeto non so se facciano le tigelle e come.
(10) Mi piacerebbe sapere, perché le diverse confessioni cristiane debbano per forza rinfacciarsi i modi di vivere.
(11) Non sapevo se facevo bene oppure avrei solo peggiorato le cose.
(12) Vorrei sapere se esiste un sito che contenga le preghiere classiche cristiane.
(13) Di chi fosse, non avevo idea.

Sebbene in simili contesti il ricorso al congiuntivo sia preferenziale (in quanto implicitamente richiesto da proprietà sintattiche del contesto o dalla posizione stessa della subordinata), gli esempi dimostrano come talvolta al suo posto possa essere impiegato anche l’indicativo (tranne che nelle subordinate anteposte). Qui, però, l’impiego dell’indicativo non comporta come in altre subordinate un passaggio a livello semantico dalla sfera della incertezza a quello della fattualità, ma è attribuibile solamente ad “un livello stilistico più o meno formale o a semplici variazioni libere” (Serianni, 2006:572).

Infine, per quanto riguarda i verbi dichiarativi (dire, dimostrare, rilevare), le regole che sono state osservate ed elencate per le proposizioni oggettive, valgono anche per le interrogative indirette. In particolare dopo dire, in qualità di “verbum dicendi” (Schneider, 1999:128) non è possibile alcun altro modo verbale se non l’indicativo. Il congiuntivo è comunque necessario solo nel caso in cui la subordinata sia anteposta o il verbo non significhi propriamente “dire” ma “credere, pensare”.

3.3.2 Subordinate relative

Le subordinate relative sono quelle introdotte da un pronome relativo (che, il cui, il quale, ecc.), riferito univocamente ad un elemento presente nella reggente (definito antecedente), di cui ne specificano o ampliano il significato. Proprio in virtù di questa funzione, nonché della relazione sintattica esistente tra le due proposizioni basata su un elemento in comune, Salvi &Vannelli (2004) inseriscono le relative tra le proposizioni attributive, termine col quale si sottolinea, a livello funzionale, una possibile analogia con un attributo o con un’apposizione nella frase semplice.

A prescindere dalla ulteriore distinzione in restrittive e descrittive che, sia Serianni (2006) che Salvi& Vannelli (2004) adottano in riferimento alla specifica funzione di determinazione (e modificazione) o semplice aggiunta che la relativa svolge nei confronti dell’antecedente, i modi verbali che si possono incontrare in subordinate di questo tipo sono principalmente l’indicativo e il congiuntivo, e più raramente, il condizionale. L’eventuale alternanza tra i primi due è frutto di una variante per lo più combinatoria, che agisce principalmente a livello semantico e fa oscillare la frase tra il polo della certezza e dell’oggettività e quello della incertezza e “potenzialità” (Nocchi & Tartaglione, 2006).

Nel corpus il congiuntivo è stato riscontrato soprattutto dopo verbi quali: cercare, comprare, volere, preferire, aver bisogno, ovvero verbi che trasmettono (implicitamente) una volizione, in quanto “l’obiettivo della volontà non deve essere necessariamente uno stato di cose; può anche essere un oggetto con peculiarità corrispondenti, attribuite ad esso nella forma di una relativa restrittiva” (Renzi& Salvi, 1991:429):

(1) Non voglio certo un’amicizia che punti solo ad una cosa […]
(2) Il portale sta cercando giovani volenterosi che arricchiscano di esperienza il sito.
(3) Cerco qualcuno che ha registrato da tele in italiano il film “Requiem for a dream”.
(4) La vera alternativa sarebbe di […] comprare due giocatori di serie C che abbiano voglia di correre.
(5) Ho comprato un libro che si intitola: LE PRESE, è di Nail Adams edizioni mediterranee.

Oltre al congiuntivo, però, dopo tali verbi può comparire anche l’indicativo, come dimostrano gli esempi. In tal caso, come già accennato prima, l’asse semantico della frase si sposta, da “incerto” “sicuro, fattivo”, poiché di solito, in relative di questo tipo, che Schwarze (2013) definisce “frase relativa modificante” e Serianni (2006) e gli altri “restrittiva”, l’indicativo si usa quando l’oggetto è referenziale, ovvero già noto a chi parla o del quale siano già state appurate le caratteristiche elencate nella relativa; il congiuntivo si usa, invece, quando l’oggetto non è referenziale, ovvero non determinato e sconosciuto a chi parla (Mancini & Marani, 2014; Schwarze, 2013); in altre parole, quando non si può presuppore come certa l’esistenza di un oggetto che abbia determinate proprietà.

Altri esempi del corpus, inoltre, attestano l’utilizzo del congiuntivo in frasi relative che contengano almeno un superlativo relativo.

(6) Puoi senz’altro provare a cercare fra i link del mio sito che sono quanto di più completo tu possa trovare.
(7) In questi tumuli funerari […] appartenenti dunque alle più antiche costruzioni dell’India che siano giunte fino a noi […].

In questo caso, non essendo stato trovato nel corpus alcun esempio in cui dopo un superlativo compaia l’indicativo, si potrebbe affermare che il congiuntivo sia l’unico modo verbale possibile, sebbene in Mancini& Marani (2014) si affermi che l’indicativo in frasi simili è possibile solo in casi “in cui si voglia sottolineare la realtà della frase relativa” (p:99) o quando il campo di paragone sia particolarmente ristretto e determinato. In ogni caso, la maggiore frequenza del congiuntivo potrebbe essere dovuta al fatto che tale costrutto serve ad esprimere un’opinione o un sentimento del parlante, il che, dunque, permette di associarlo “semanticamente” ai verbi di opinione e di pensiero, dopo i quali la norma vuole che ci sia il congiuntivo.

Si usa il congiuntivo, inoltre, in frasi relative dopo niente, nessuno, nulla, ogni e dopo pronomi indefiniti con valore relativo, quali: chiunque, qualunque, qualsiasi e gli avverbi ovunque, dovunque, comunque.

(1) Qualsiasi azione negativa, anche la più lieve, che io abbia compiuto durante la mia esistenza, abbia indotto gli altri a commettere o del cui compimento mi sia rallegrato, le rivelo tutte senza alcun ritegno.
(2) Uccidete i vostri nemici ovunque li troviate.
(3) Quella gente non era nulla a cui io volessi assomigliare.
(4) Io non conosco nessuno che gestisca un circolo.

In alcune occorrenze, però, sia i pronomi indefiniti che gli avverbi si presentano anche in combinazione con l’indicativo, imputabile nel caso dei pronomi negativi e “ogni” alla necessità di sottolineare la realtà del contenuto della frase (Mancini& Marani, 2014), mentre negli altri casi tutt’al più ad una variazione diafasica, talvolta diastratica della lingua:

(5) Nessuno mi ha detto che dovresti fare la tessera in ogni circolo in cui vai.
(6) Cosa dovrò sopportare ancora per dimostrarti che ormai in me non c'è più nulla di ciò che ero.
(7) Cito la verità ovunque la trovo.
(8) Se non lo faccio io non c’è nessuno che lo fa.

3.3.3 Subordinate consecutive

Le subordinate consecutive servono ad esprimere la conseguenza, l’effetto prodotti dall’azione espressa nella principale. Nella forma esplicita esse sono introdotte da congiunzioni o locuzioni, quali che, sicché, a tal punto che, cosicché, in modo che, ecc., seguiti principalmente dall’indicativo. Il congiuntivo (così come il condizionale) lo si utilizza, invece, quando si voglia esprimere incertezza, eventualità e, talvolta, anche finalità. L’utilizzo del congiuntivo in tale subordinata rappresenta, pertanto, una “variante libera” con implicazioni semantiche, legata essenzialmente alle esigenze comunicative del parlante (Sgroi, 2013).

(1) Trovai qualcuno per portarmi con l’auto, cosicché potessi saltare fuori dalla macchina […]
(2) […] Cosicché gli utilizzatori possono continuare a sfogliare le pagine senza perdere il loro posto […].
(3) La logica non è una scelta o un'opinione, sicché si può accettare un ' asserzione ritenendola logica - quando logica non è - solo se si commette un errore
(4) Dimmi dov'è, sicché io possa vendicarmi!

Come osservano Salvi& Vannelli (2004) e Serianni (1997), le congiunzioni sovra elencate si utilizzano esclusivamente nel caso in cui la subordinata esprima la conseguenza dell’intera frase subordinata. Se, invece, l’effetto si riferisce soltanto ad un elemento in essa presente, è necessario l’utilizzo di alcuni antecedenti, come tanto/talmente/così, che precedono di norma l’elemento in questione, mentre la subordinata è introdotta da un semplice che:

(5) […] sei talmente preso dai tuoi deliri che non riesci a interpretare cosa c'è dietro a quello che leggi.
(6) Sei talmente ottuso che mi rifiuto di replicare.
(7) La reazione al nostro essere Straight era così derisoria che non riuscivamo a crederci.
(8) La sessualità è un argomento così personale che dovrebbe essere lasciato all' insindacabile libertà degli individui.

[...]


1 Il termine è stato ereditato dalla logica modale.

2 A queste due tipologie di modalità se ne affianca un’altra, definita modalità dinamica, alla quale viene imputata la funzione esclusiva di dare valore soggettivo ad un fatto che è stato espresso in forma impersonale (es. Carlo deve essere uscito> Io suppongo che Carlo sia uscito).

3 Il concetto di “modo verbale” lo si estende anche ad altre tre forme verbali: l’infinito, il gerundio e il participio. Esse costituiscono i tre modi indefiniti del verbo, sebbene, in realtà, non esprimano alcuna modalità dell’azione ma hanno una funzione prettamente nominativa, servono cioè a nominare l’azione, senza dare indicazioni sulla possibile valutazione dell’enunciato da parte del parlante (es. piovuto/piovere) (Renzi & SaIvi, 1991). Inoltre, causa dell’assenza delle forme di flessione verbale riferite alla persona, sono strettamente dipendenti, dal punto di vista sintattico, ad un altro elemento, sia esso una frase intera (es. tornando a casa, mi resi conto che era tardi) o un solo verbo, ad es. nelle costruzioni parafrasali (stavo tornando a casa). Tale atteggiamento contraddistingue soprattutto il gerundio, mentre si presenta con maggiore attenuazione negli altri due modi che, in alcuni casi di omissione dell’ausiliare o di imperativo negativo, possono presentare anche una certa autonomia (es. finiti i compiti?); (non toccare!).

4 È importante sottolineare che tali regole si applicano solo in quelle frasi complesse, nella cui principale ci sia un verbo che richiede obbligatoriamente il congiuntivo (vedi paragrafo successivo). Con i verbi dichiarativi (dire, dichiarare, affermare), i verbi di percezione (sentire, notare, rendersi conto) o espressioni che esprimono certezza assoluta (è certo, chiaro, evidente, sicuro, vero, ecc. …) nella subordinata va l’indicativo per esprimere l’anteriorità o la contemporaneità dell’azione o il condizionale passato per la posteriorità.

5 In questa frase il congiuntivo imperfetto indica una condizione, un’azione abituale e non un fatto singolo avvenuto una sola volta, che viene invece espresso dal congiuntivo al passato.

6 Il condizionale passato assume in frasi complesse di questo tipo il valore di “futuro nel passato” (Chiappini & De Filippo, 2014:26)

7 Corsivo mio

8 Grassetto dell’autore

Excerpt out of 129 pages

Details

Title
Il congiuntivo italiano per tedeschi. Una proposta didattica corpus-based
College
University of Turin
Grade
110 cum laude
Author
Year
2018
Pages
129
Catalog Number
V520298
ISBN (eBook)
9783346136626
ISBN (Book)
9783346136633
Language
Italian
Keywords
Konjunktiv, didaktik, didattica, italiano l2, italienisch als Fremdsprache, german, Romanistik, congiuntivo
Quote paper
Vera Calia (Author), 2018, Il congiuntivo italiano per tedeschi. Una proposta didattica corpus-based, Munich, GRIN Verlag, https://www.grin.com/document/520298

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