Il movimento dei bambini e adolescenti lavoratori in Sudamerica. Un diverso punto di vista sul lavoro minorile


Academic Paper, 2018

20 Pages

Anonymous


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Indice

1. Nascita dei movimenti organizzati di bambini lavoratori (Nats)

2. Crescita e sviluppo del movimento Nats: dal locale al globale

3. Lavoro minorile: valorizzazione o abolizionismo?

4. Cosa significa lavoro minorile?

5. Fallimento dell’abolizionismo

6. Conclusioni

Riferimenti bibliografici / References

Un'altra infanzia. Il movimento dei bambini e adolescenti lavoratori in Sudamerica: un diverso punto di vista sul lavoro minorile.

Another childhood. The Movement of Working Children and Adolescents in South America: a different perspective on children work.

La otra infancia . El movimiento de los niños y adolescentes trabajadores en Sudamérica: una diferente perspectiva sobre el trabajo infantil.

Sintesi Mentre le campagne abolizioniste promosse dall’Ilo (Oil) e da diverse organizzazioni non governative diffondono un pensiero acritico sull’eradicazione del lavoro minorile, in Perù e in Sudamerica, gruppi organizzati di bambini lavoratori (Nats) rivendicano i loro diritti e, contestando il paradigma abolizionista, ci ricordano che lavoro minorile non sempre è sinonimo di sfruttamento.

Parole chiave: Nats, bambini lavoratori, Ilo, Perù, abolizionismo

Resumen Mientras que las campañas abolicionistas promovidas por la Ilo (Oit) y varias organizaciones no gubernamentales extienden una visión acrítica sobre la erradicación del trabajo infantil, en Perú y en América del Sur, grupos organizados de niños trabajadores (Nats) reclaman sus derechos y, al cuestionar el paradigma abolicionista, nos recuerdan que trabajo de los menores no siempre significa explotación.

Palabras clave: Nats, niños trabajadores, Ilo, Perú, abolicionismo

Abstract While campaigns on abolitionism promoted by Ilo and several other non-governmental organizations spread out an uncritical view on child work eradication, in Peru and in South America, organized groups of working children (Nats) claim their rights and, by questioning the abolitionist paradigm, they remind us that children’s work does not always mean exploitation.

Keywords: Nats, working children, Ilo, Peru, abolitionism

1. Nascita dei movimenti organizzati di bambini lavoratori (Nats)

Nel 1960, in Perù, salì al potere il governo dei militari che si riproponeva di migliorare le condizioni di quella parte di popolazione fino ad allora emarginata dalla vita sociale, dei poveri e di coloro che vivevano nelle campagne. «Né capitalismo, né comunismo» era lo slogan del governo al quale facevano eco le voci delle masse: «la terra appartiene a coloro che la lavorano», «contadino, nessuno si sazierà col sudore della tua fronte»1 sono alcuni degli slogan che rivelano bene il clima politico di quegli anni. I movimenti social popolari si rivolgevano prima di tutto a quelle fasce di popolazione che erano state escluse: donne, giovani, indigeni andini e amazzonici, trovando supporto teorico nella dottrina marxista e in quella cristiana2. Molti cattolici e protestanti si unirono alle rimostranze. L’agitazione sociale crebbe fino a provocare un inasprimento delle misure repressive da parte del governo che divenne sempre più impopolare a causa del crescente autoritarismo. Nel 1978, dopo un lungo periodo di regime militare e in previsione del ripristino delle libertà democratiche, fu infine convocata l'assemblea costituente che, l’anno successivo avrebbe promulgato la nuova Costituzione.

È in questo contesto politico, sociale e ideologico che nacque, nel 1976, l’organizzazione di bambini, bambine e adolescenti lavoratori che prese due anni più tardi il nome di Manthoc. I giovani lavoratori di tutto il paese iniziarono a partecipare alle proteste e alle azioni intraprese dalle organizzazioni popolari, alle marce dei minatori, agli scioperi della fame, alle varie manifestazioni con l’intento di far sentire la voce delle classi sociali più emarginate. La visione sociale dell’infanzia era ancora quella di una componente sociale marginale, di stampo coloniale, che le varie riforme del XIX e XX secolo non erano riuscite a modificare; tuttavia, in quegli anni di cambiamenti sociali e politici, al protezionismo si iniziava ad affiancare una nuova percezione sociale che vedeva i giovani sempre più al centro delle attenzioni dello Stato. La loro partecipazione all’interno della società, seppur ancora vigilata e vincolata al mondo degli adulti, cominciava ad essere accettata. La concezione di infanzia rimaneva tendenzialmente inalterata, tuttavia, a poco a poco, la volontà di rinnovare la politica e l’ideologia del paese iniziava a coinvolgere anche il settore educativo e pedagogico, facendo emergere le prime voci fuori dal coro.

Da questa «minoranza attiva»3 che voleva svincolarsi dai processi di massificazione e mettere in questione le norme politicamente corrette, nacque il Manthoc (acronimo di Movimiento de Adolescentes y Niños Trabajadores Hijos de Obreros Cristianos) che, col sostegno del movimento operaio e di quello giovanile, intendeva promuovere una nuova immagine dei bambini e degli adolescenti lavoratori, rendendoli soggetto di diritto agli occhi dello Stato e valorizzando la loro condizione di lavoratori. In Perù, il Manthoc costituiva la prima esperienza di azione organizzata da parte dei giovani lavoratori, in seguito conosciuti come «Nats» (acronimo di niños, niñas y adolescentes trabajadores)4. L’organizzazione nasceva con molteplici obiettivi: a livello sociale voleva combattere l’emarginazione, a livello economico lo sfruttamento e il lavoro informale, a livello politico criticava l’abolizione del lavoro minorile, a livello educativo si opponeva al falso antagonismo educazione-lavoro5. Il movimento dei Nats si diffuse rapidamente nelle varie regioni del Perù per iniziativa degli stessi bambini e adolescenti lavoratori che poi incentivarono la formazione di movimenti paralleli nel resto dell’America Latina. La visione sociale del Manthoc non intendeva coinvolgere solo i giovani lavoratori ma si rivolgeva piuttosto all’intera società, postulando la necessità di un cambiamento delle politiche sociali nei confronti dei più giovani come interesse collettivo. I principi che guidarono la formazione delle prime organizzazioni di Nats furono: Il principio di autonomia organica, ossia il fatto di non essere la sezione di una organizzazione, ma un movimento indipendente; il principio del protagonismo, ovvero bambini e adolescenti a capo del movimento; l’apertura verso l’insieme dei Nats nel mondo; la creazione di un’apposita pedagogia che si adatti alle esigenze dei Nats e non l’applicazione di un modello preesistente6. Il concetto di protagonismo, preso in prestito dalle lotte sociali degli ultimi anni, costituirà in seguito uno dei pilastri del discorso politico sociale delle organizzazioni dei giovani lavoratori.

A partire da queste premesse si voleva porgere un invito ad un ripensamento del rapporto tra infanzia e lavoro. In quale momento storico questi due concetti avevano iniziato a essere visti in opposizione tra loro? Per quale motivo i Nats erano visti come sinonimo e causa di povertà del paese? Quando si era iniziato a considerare i Nats persone socialmente disadattate e motivo di vergogna per il paese? L’ideologia del Manthoc trovò un valido sostegno tredici anni dopo, quando apparve la Convenzione Onu sui Diritti del Bambino7. Molti dei principi espressi nella Convenzione infatti, si ricollegavano ai valori per i quali si battevano i Nats, quali appunto il protagonismo e la partecipazione. La Convenzione pose solide fondamenta allo sviluppo del movimento in quanto, i principi in essa contenuti, fornirono un valido punto di riferimento per denunciare le diverse interpretazioni sul lavoro minorile che proliferarono negli anni successivi.

2. Crescita e sviluppo del movimento Nats: dal locale al globale

Negli ultimi due decenni del XX secolo, i vari movimenti formatisi in Sudamerica iniziarono a guadagnare popolarità e consenso, consolidando la loro struttura e il loro raggio d’azione. Nel 1986, l’assemblea nazionale dei delegati Nats decise di ampliare l’azione del Manthoc per rispondere ad alcune delle necessità primarie dei bambini lavoratori come quelle educative, alimentari, sanitarie, a cui la maggior parte di loro non aveva accesso. L’associazione Manthoc divenne quindi persona giuridica, in grado di rappresentare legalmente il movimento e al contempo erogare servizi di prima necessità. L’apporto del Manthoc in quegli anni fu fondamentale per la ricostruzione dell’immagine dell’infanzia e dei Nats. Il solo fatto di invitare i bambini e le bambine ad organizzarsi, a riunirsi, a riflettere sulla loro stessa condizione e su come erano visti all’interno della famiglia, del loro quartiere, della loro scuola, costituiva un primo esercizio di ricostruzione della propria immagine personale e della propria autostima, la stessa che la società aveva invece contribuito a demolire. La valorizzazione del bambino e della bambina passava attraverso l’associazione, la quale rappresentava per ognuno di loro, uno spazio dove finalmente si poteva sentire degno di amicizia, di affetto e di amore, sia con i loro coetanei che con gli adulti.

La rapida espansione del Manthoc, nel 1996 portò alla costituzione del Mnnatsop, un’associazione più grande che intendeva riunire i circa trenta gruppi di bambini lavoratori peruviani allora esistenti, nati da background ed esperienze diverse8. Ad oggi il Mnnatsop, che conta circa 14 mila membri, rappresenta i Nats peruviani negli incontri internazionali. L’azione iniziata in Perù si diffuse presto negli altri paesi del Sudamerica che ad oggi dispongono di una larga rete costituita da numerose associazioni. Tra le più attive troviamo Connats in Paraguay, Corenats in Venezuela, Ecuavyfnats in Ecuador, Melel Xojobal in Mexico, Mnnatsop in Perù, Onatscol in Colombia, Onnats in Guatemala, Unatsbo in Bolivia e La Veleta Y La Antena in Argentina. Insieme, queste associazioni formano oggi il Molacnats (Movimiento Latinoamericano y del Caribe de Niñas, Niños y Adolescentes Trabajadores) in rappresentanza del continente sudamericano9. Diverse associazioni partner, sia in Sudamerica che all’estero, in particolare in Europa, hanno deciso di sostenere i movimenti dei Nats. Tra le più importanti troviamo ProNats, Save The Children (in particolare Stc Svezia), Terre des Hommes, Voix des enfants actifs, EuropaNats, Ifejant e Infant, oltre a due associazioni italiane: ItaliaNats e Progettomondo Mlal.

Le organizzazioni di Nats sono ad oggi considerate un importante interlocutore in tema di diritti di infanzia da diversi governi sudamericani e la loro azione è stata determinante in diverse occasioni. In Perù, ad esempio, nel 1992, su pressione dei Nats, il governo, nella riforma del Codice dei minori, abbassò l’età minima per lavorare a 12 anni, riconobbe loro la possibilità di stipulare un contratto lavorativo e incoraggiò di fatto l’associazionismo minorile in quanto considerato un valido contributo al miglioramento delle condizioni lavorative dei bambini. In tempi più recenti, in Bolivia, durante l’approvazione della nuova Costituzione del 2007, i movimenti dei Nats hanno chiesto e ottenuto la modifica dell’articolo 61. Tale articolo, per la cui introduzione l’Ilo aveva esercitato una forte pressione, vietava indiscriminatamente il lavoro minorile in tutte le sue forme. Nella nuova Costituzione, grazie ai Nats, la proibizione del lavoro minorile si è trasformata in divieto allo sfruttamento.

Per poter diffondere il proprio messaggio all’opinione pubblica e alle organizzazioni internazionali, era necessario portare il movimento su un piano intercontinentale. Fu così che sull’onda del successo dell’esperienza sudamericana, nel 1996 si tenne la prima conferenza mondiale dei Nats a Kundapur in India. Punti principali della Dichiarazione finale furono il protagonismo minorile, il lavoro degno, il diritto all’educazione e il ripudio dello sfruttamento economico. Nel 2004, un movimento rinnovato nella sua maturità sociale, si riunì a Berlino per un secondo incontro mondiale. L’accento questa volta fu posto sulla solidarietà tra bambini di tutto il mondo, lavoratori e non, sulla condanna delle politiche abolizioniste e sull’obiettivo di creare una società che elimini ogni tipo di discriminazione. Il terzo incontro mondiale si tenne a Siena appena due anni dopo e fu forse l’incontro che più di tutti segnò la storia del movimento: venne istituito ufficialmente il movimento mondiale dei Nats e venne inoltre stabilita la giornata mondiale del bambino lavoratore il 9 Dicembre10. All’incontro questa volta presero parte rappresentanti dell’Unicef oltre a numerose altre istituzioni e ONG. Oltre ai temi e ai principi espressi nei precedenti incontri che vennero ripresi con nuovo vigore, fu reclamato il diritto di poter esprimere la propria opinione dinnanzi la comunità internazionale sulle decisioni che riguardavano gli stessi Nats.

Anche se a livello mondiale le difficoltà economiche e geografiche non hanno permesso alla rete di bambini lavoratori di portare a termine tutti gli impegni e gli obiettivi che si erano preposti, a livello continentale la presenza dei Nats è oggi più viva che mai. In Perù la rete nazionale dei Nats coinvolge molteplici realtà associative quali il movimento scout, le organizzazioni scolastiche, gruppi di quartiere, delle zone rurali, delle regioni andine e amazzoniche oltre alle numerose associazioni nate sull’esempio del Manthoc. È necessaria a questo punto una riflessione finale. Quanto e in che modo hanno influito gli adulti nel processo di sviluppo dell’ideologia dell’organizzazione? Sono gli adulti che hanno formulato molte delle espressioni che i bambini e le bambini oggi declamano a gran voce? Senza ombra di dubbio sì. Ma la domanda a questo punto è: può l’intervento da parte degli adulti considerarsi un valido motivo per infirmare tutto quanto dichiarato finora dai bambini? O è piuttosto un aiuto per permettere ai bambini a dar voce alle loro esperienze, alle loro speranze e alle loro esigenze? C’è chi dice che non sarebbero in grado di sostenere da soli certi argomenti. C’è invece chi, quando dimostrano di riuscirli a sostenere, li rimprovera di essere stati indottrinati, di parlare come i loro educatori, di ripetere senza capire. Ma in qualunque contesto sociale i bambini sono educati in qualche modo dagli adulti; questo discorso dovrebbe essere valido allora anche per i nostri? Probabilmente al di là degli insegnamenti, c’è una capacità critica e di riflessione da parte del bambino che troppe volte viene ignorata; senza dimenticare che nel caso dei Nats, è vero che le associazioni si avvalgono del supporto degli adulti ma ad oggi sono gestite dai bambini in maniera del tutto indipendente11. Ricordiamo a questo proposito un episodio accaduto durante un incontro del Manthoc in cui un’alta funzionaria del governo chiese a un gruppo di Nats: «chi vi ha preparato questo discorso?» «Noi stessi – gli risposero – per caso i parlamentari, il presidente, i ministri, lo stesso papa e anche lei non vi fate consigliare quando dovete esporre o fare dichiarazioni in pubblico? Dovremmo quindi pensare che anche lei è manipolata dai suoi consiglieri? Il problema è che siccome siamo bambini la gente pensa che siamo tonti, che crediamo a tutto quello che ci viene detto e che gli adulti ci possono ingannare facilmente»12.

3. Lavoro minorile: valorizzazione o abolizionismo?

Dalla nascita dei primi movimenti di bambini lavoratori sono trascorsi oltre quarant’anni. I profondi cambiamenti apportati dalla società della globalizzazione durante questo lasso di tempo hanno reso necessaria una costante reinterpretazione del significato di lavoro e di sfruttamento minorile. Questo fenomeno che, complice il consumismo, la delocalizzazione e la competizione dei mercati, trova oggi terreno fertile nei paesi in via di sviluppo, non deve però essere circoscritto entro i confini di questi ultimi, ma interrogato alla luce di un sistema globale che produce ricchezza per alcuni e povertà per moltissimi altri. Culture come quella andino-amazzonica, che fondavano la loro economia sul nucleo familiare e sulla comunità locale si sono di fatto disgregate dinnanzi alla logica capitalista e alle nuove necessità produttive, che hanno fatto dello sfruttamento e della mano d’opera a basso costo uno dei fondamenti dell’economia globale moderna.

Se da una parte il crescente interesse delle organizzazioni, delle istituzioni e dei mass media verso questo fenomeno ha contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica sulle condizioni dei bambini lavoratori, dall’altra ha favorito il consolidamento di un pensiero abolizionista indiscriminato e omogeneizzato verso il lavoro minorile. Le persone, le organizzazioni intergovernative, la maggior parte delle ONG, hanno gradualmente accettato questo modo di pensare, rifiutando a prescindere ogni tipo di confronto sul valore che il lavoro minorile può ancora avere in alcune comunità. Al contempo però, nell’altro emisfero del pianeta, alcuni gruppi organizzati di bambini lavoratori contestavano la retorica abolizionista, sostenendo di fatto un diverso tipo di approccio che contemplava la valorizzazione del lavoro minorile.

Attualmente è possibile distinguere tre diverse posizioni.

- Abolizionista: che vede nel lavoro minorile in tutte le sue forme e senza alcun tipo di eccezione, un grave problema sociale da eradicare. Ai bambini non è permesso svolgere alcun tipo di attività lavorativa in quanto pregiudicherebbe il corretto sviluppo psico-fisico. La posizione abolizionista propone il boicottaggio dei prodotti fabbricati dai bambini, la chiusura delle attività economiche che impiegano bambini e il sostegno economico alle famiglie coinvolte. Questa posizione è sostenuta notoriamente dall’Ilo e da alcune organizzazioni sindacali.
- Pragmatica o realista: che considera l’esistenza di contesti sociali differenti ai quali non è possibile applicare una soluzione universale. L’idea di base è quella che la distribuzione ineguale della ricchezza e l’esistenza di modelli di sviluppo obsoleti abbiano favorito lo sviluppo del lavoro minorile, rendendolo una componente integrante e necessaria alla sopravvivenza stessa di alcuni tessuti sociali. Tale approccio contempla l’esistenza di forme leggere di lavoro minorile a patto che non compromettano l’educazione e il benessere psico-fisico del bambino. Coloro che sostengono questo approccio si battono comunque per l’abolizione delle cosiddette «peggiori forme» di lavoro minorile, del lavoro pericoloso e dello sfruttamento dei bambini. Questa posizione è sostenuta principalmente dall’Unicef e da alcune organizzazioni ed associazioni di settore.
- Valorizzazione critica: propone un approccio del fenomeno completamente diverso, che inizia col distinguere prima di tutto sfruttamento e lavoro minorile. Il lavoro non viene considerato dannoso in quanto tale ma può diventare dannoso per via delle condizioni imposte. Così come per gli adulti, anche per i bambini può rappresentare un valore aggiunto per coltivare il loro senso civico, la cittadinanza attiva, la partecipazione sociale e per la dignità della persona; può essere inoltre uno strumento educativo e formativo nonché una risposta razionale alla condizione di alcune famiglie nei paesi in via di sviluppo. Il lavoro minorile deve svolgersi in condizioni degne e mai compromettere l’istruzione o lo sviluppo del bambino. È questa la posizione delle numerose associazioni di Nats in Sudamerica e nel resto del mondo, supportata attualmente da alcune ONG in Europa e in Sudamerica. L’Unicef si è spesso resa disponibile ad un confronto con coloro che sostengono questa posizione a differenza dell’Ilo che non ha mai accettato di aprire un dialogo.

Le richieste delle associazioni di Nats di partecipare agli eventi promossi dall’Ilo sono sempre state respinte rendendo impraticabile il confronto tra le diverse posizioni. Allo stesso modo, il Programma Internazionale per l'Eliminazione del Lavoro Minorile (Ipec) promosso dall’Ilo, all’interno dei suoi report e dei suoi studi di settore, ha sempre condannato i movimenti di Nats in Sudamerica. Negli stessi report possiamo vedere come tali movimenti siano considerati un vero e proprio pericolo per la società, pericolo del quale hanno già allertato governi e ONG in modo da impedirne l’azione. D’altronde l’Ilo ha sempre avuto una posizione molto chiara sul fenomeno. Nella pubblicazione «Eliminare le peggiori forme di lavoro minorile, guida per i parlamentari su come implementare la Convenzione n. 18213 », dichiara apertamente ciò che intende per lavoro minorile: «lavoro minorile è ciò che priva i bambini della loro infanzia, del loro potenziale e della loro dignità e può pregiudicare il loro sviluppo fisico e mentale»; senza tra l’altro preoccuparsi che tale definizione altera quanto sancito dall’articolo 32 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (Uncrc)14. La pubblicazione dell’Ilo prosegue affermando che: «il lavoro minorile si deve considerare non solo come conseguenza ma come causa della povertà e del sottosviluppo». E ancora poco più avanti: «Oggigiorno, la situazione e il prestigio internazionale di un paese, incluso il suo accesso ai mercati internazionali, dipende in gran misura dal suo impegno di abolire il lavoro minorile». Infine, per non lasciare posto a possibili fraintendimenti conclude dichiarando che «l’adozione e il successo della Convenzione n. 182, non significa che si sia abbandonato l’obiettivo fondamentale, ovvero l’abolizione di qualsivoglia forma di lavoro minorile. Al dar priorità alla lotta contro le peggiori forme di lavoro minorile, si sta solo cominciando dall’inizio, è il punto di partenza per promuovere e facilitare il raggiungimento di questa meta fondamentale»15.

4. Cosa significa lavoro minorile?

Ma cosa si intende esattamente quando si parla di lavoro minorile? Cosa racchiude questo concetto? Cos’è di preciso ciò che l’Ilo considera un «flagello»? Iniziamo col dire che il lavoro minorile è da sempre uno dei motivi principali dell’esistenza stessa dell’Ilo e ad oggi rappresenta la battaglia nella quale investe la maggiore quantità di risorse16. La definizione generica di lavoro minorile proposta dall’Ilo è comunemente associata a perdita dell’infanzia, infanzia rubata, o più precisamente, a «tutte le attività che privano il bambino della sua infanzia, del suo potenziale, della sua dignità e che possono pregiudicare il suo sviluppo fisico e psicologico»17. È chiaro da subito come questa definizione porti con sé una forte carica negativa, ormai condivisa dalla maggior parte dell’opinione pubblica. Il lavoro di un minore è percepito come qualcosa di anormale e il bambino lavoratore come una vittima. Questa concezione del lavoro minorile che si ripropone nelle dichiarazioni, negli studi e nei report dell’Ilo, si presenta sempre come un dogma dell’abolizionismo che però non trova supporto in alcun tipo di spiegazione o analisi del fenomeno.

Per cercare quindi di fare chiarezza, l’Ilo propone una serie di precisazioni, se non per comprendere, quantomeno per inquadrare il fenomeno. A questo proposito viene proposta la distinzione tra child labour e work: la locuzione child labour indicherebbe tutte le cosiddette peggiori forme di lavoro, lo sfruttamento, ovvero tutto quanto dichiarato come inaccettabile nella Convenzione 182 mentre col termine working children si farebbe riferimento a tutte le forme di lavoro non pericolose né nocive per il bambino e di conseguenza tollerate18. Questa distinzione presenta però una serie di problemi, primo fra tutti quello di natura linguistica. La distinzione esistente nella lingua inglese non trova infatti riscontro nella traduzione italiana, né in quella spagnola, né in quella francese dove sia child labour sia working children, vengono tradotti semplicemente con «lavoro minorile», trabajo infantil o travail des enfants, senza apportare alcuna distinzione né specificazione come nell’inglese. Questa approssimazione linguistica porta con sé il rischio di sconfinare fuori dal campo semantico originario e di conseguenza creare fraintendimenti. Ne sono un esempio le campagne per la «abolizione del lavoro minorile», che nella formulazione generica dell’italiano, dichiarano di fatto un’abolizione totale e senza riserve del lavoro, tra chi ancora non ha raggiunto la maggiore età.

È chiaro che il messaggio originale viene così distorto creando tra l’altro una pericolosa falsa definizione: la giornata mondiale contro il «lavoro minorile» non porta con sé la stessa valenza di significato della giornata mondiale contro il « child labour ». Oltretutto, la locuzione «lavoro minorile», che originariamente presenta una definizione etimologicamente neutra, diventa sempre più sinonimo di sfruttamento minorile o di lavoro pericoloso svolto da bambini. Le associazioni che promuovono le campagne abolizioniste, così come l’opinione pubblica che le legge, tenderanno sempre più a identificare «lavoro minorile» e quindi il semplice lavoro dei bambini (non lo sfruttamento), con qualcosa di nocivo e di conseguenza col concetto di abolizione, semplificando la complessità di questo fenomeno e senza prendere in considerazione la distinzione tra le diverse forme e tipologie. Allo stesso modo il programma IPEC dell’Ilo, « International Programme on the Elimination of Child Labour », diventa in italiano il Programma per l'eliminazione del Lavoro Minorile e così via dicendo19.

Sotto questo punto di vista la battaglia mediatica dell’abolizionismo è già praticamente vinta. Non c’è neutralità di informazione sul lavoro minorile e per accorgersene basta guardare una qualsiasi televisione o leggere un qualsiasi giornale. «I mass media occidentali diffondono una sorta di pessimismo acritico sul lavoro dei bambini che viene presentato con immagini shock di bambini sfruttati nelle fabbriche di Bangkok, nelle prigioni pachistane, o con i bambini di strada in Brasile. Queste situazioni certamente esistono però non ci stancheremo mai di ripetere che coinvolgono solo una percentuale ristretta di bambini»20.

Un secondo problema di questa distinzione è dato d’altronde proprio dalla necessità di voler porre una linea di confine tra le forme di lavoro nocive e quelle che non lo sono. Cos’è che di fatto può essere considerato lavoro nocivo per un bambino? Se da una parte la risposta a questa domanda ci permetterebbe di infrangere l’immagine del lavoro minorile come un unico blocco omogeneo, dall’altra ci porterebbe a creare dei contenitori semantici di un concetto che però non è semanticamente statico. Sia il concetto di infanzia che quello di lavoro minorile, sono infatti delle rappresentazioni sociali che variano a seconda delle culture, dello spazio e del tempo.21 Stabilire una linea di confine tra lavoro «responsabile» e lavoro «nocivo» per i minori, secondo parametri occidentali, potrebbe avere poco senso se applicato agli standard dei paesi in via di sviluppo e viceversa. Questo, soprattutto se teniamo in considerazione che «la maggior parte delle forme di lavoro presentano aspetti sia positivi che negativi, e possono di conseguenza, essere sia nocivi sia idonei allo sviluppo e al benessere del bambino»22.

Un approccio schematico di questo tipo d’altronde riflette le prassi concettuali dell’Ilo, il quale applica una metodologia di lavoro definita «operativa» e quindi quantificabile, che si fonda sulla verifica di risultati misurabili, con tutte le conseguenze del caso. Per far questo, proseguendo nella schematizzazione concettuale, l’Ilo cerca di costruire un quadro di riferimento dove inserisce anche parametri quali l’età e le tipologie di lavoro. Il problema a questo punto si pone quando ci si trova a fare i conti con situazioni che esulano dagli schemi predisposti. Dal momento che per lavoro è considerato tutto ciò che genera un profitto e per bambini lavoratori si considera la popolazione tra i 5 e i 17 anni che è economicamente attiva, sorgono dei problemi quando ci si trova a dover trattare di lavori domestici, attività extrascolastiche, bambini che lavorano nell’agricoltura familiare o in generale in lavori informali non remunerati. Nella maggior parte dei casi, i suddetti lavori, in quanto non remunerati, non rientrano negli schemi e nei report dell’Ilo, come se fosse la dimensione economica di un attività a determinarne il suo carattere deleterio. L’esclusione di un’indagine sulle realtà intrafamiliari, di fatto molto più complessa da realizzare, determina l’esclusione di una parte dei minori lavoratori dal raggio d’azione dell’organizzazione23.

All’interno del gruppo di bambini «economicamente attivi», l’Ilo tenta di definire dei sottogruppi in base alla priorità di intervento. Al primo gradino di questa scala di emergenza troviamo i bambini coinvolti nelle cosiddette «peggiori forme» di lavoro, un altro costrutto linguistico che ha generato non poche polemiche in quanto sotto il concetto ombrello di lavoro minorile ha deciso di collocare attività quali la prostituzione, il traffico di minori, i bambini soldato e la schiavitù. Le associazioni di Nats da tempo si battono contro questa definizione divulgata con la C. 182 che considera «lavoro» quelli che invece secondo loro dovrebbero essere considerati veri e propri crimini, delitti contro il bambino e contro l’umanità24. Ciò nonostante, la classificazione della C. 182 ha raccolto ad oggi un ampio numero di consensi, risultato di una propaganda e di un compromesso politico favorevole ai tre istituti - governi, datori di lavoro e lavoratori - che compongono l’Ilo25.

5. Fallimento dell’abolizionismo

La Convenzione 182 fu presentata come l’arma che avrebbe definitivamente eliminato ogni forma di lavoro minorile, (così come era stato annunciato anche durante la presentazione della sua predecessora, la C. 138 del 1973). Sono passati ormai 40 anni da quando l’Ilo, con l’approvazione della C. 138, ha iniziato la sua battaglia contro il lavoro minorile in maniera sistematica e con crescente intensità. La C. 138 all’epoca fu ratificata solo da pochi paesi in via di sviluppo e per questo si rivelò essere uno strumento inefficace. Per ovviare a questa mancanza, l’Ilo ha continuato a creare una serie di strumenti ad hoc quali appunto l’Ipec, la C. 182, le numerose campagne, la giornata per l’abolizione del lavoro minorile, ecc. per combattere quello che definisce un «flagello» della società moderna. Nel 2006 finalmente, nel suo rapporto globale sul lavoro minorile, l’Ilo annunciò orgogliosamente che il «movimento mondiale per la lotta al lavoro minorile» di cui lei stessa era a capo, era vicino all’obiettivo che si era preposto: «l’eradicazione del lavoro minorile è alla nostra portata»26. Nello stesso rapporto, l’Ilo nel suo piano d’azione, dichiarò che sarebbe stata in grado di abolire definitivamente tutte le peggiori forme di lavoro minorile in un tempo massimo di 10 anni, vale a dire entro il 2016. Le dichiarazioni erano quanto mai sorprendenti e un risultato del genere decisamente inaspettato. Tali affermazioni veicolavano inoltre un altro messaggio: quello di aver portato avanti un lavoro efficace e concreto che aveva prodotto i risultati tanto attesi.

Tuttavia, le cifre che erano state presentate non riuscivano a confermare quanto affermato. Le fonti e le metodologie di valutazione erano infatti insufficienti e le categorie adoperate quantomeno discutibili. Nel rapporto in questione, ad esempio, venivano escluse tutte le categorie di sfruttamento minorile che non rientravano nella cosiddetta sfera di «attività economica» quindi, come abbiamo già visto, i lavori domestici, il lavoro svolto in ambito familiare e le varie tipologie di lavoro informale. Ma al di là delle categorie prese in considerazione, emerse una base dati che oltre ad essere scarsa, prendeva in esame valori statistici che non erano tra loro comparabili. Le cifre che venivano presentate per evidenziare il trend positivo a livello globale raccoglievano i dati di soli 31 paesi, che oltretutto facevano riferimento ad anni diversi o a periodi temporali troppo brevi. I dati del Kenya ad esempio prendevano in considerazione il solo anno 1999/2000, il che chiaramente non permetteva di estrarre una curva statistica significativa. Nel caso dell’India invece, i dati contemplavano i soli anni 1994 e 1999, il che ovviamente non poteva costituire un valido parametro per conoscere la realtà dei fatti al 2006, anno di pubblicazione del report. Ancora più clamoroso il discorso per l’America Latina dove l’Ilo affermava addirittura di aver registrato una riduzione del lavoro minorile di ben due terzi (paragrafo 29). Il problema sorge però quando decidiamo di confrontare i dati con quelli di altre fonti, così scopriamo che, in riferimento allo stesso periodo di tempo considerato dall’Ilo, in un rapporto del maggio 2006, l’Unicef dichiarò che il lavoro minorile era aumentato di circa 56.500 unità. Il Ministero del lavoro argentino, dal canto suo, affermò che in quegli stessi anni il lavoro minorile era aumentato in maniera allarmante. E ancora, l’Istituto nazionale di statistica in Bolivia dichiarò che, tra il 1992 e il 2005, il lavoro minorile aveva conosciuto un incremento di circa il 30%27. Allo stesso modo, anche l’esperienza delle varie Ong e dei movimenti di Nats suggeriva che ci fosse stato un incremento del lavoro minorile.

Come spiegare allora questa discrepanza con i dati pubblicati dall’Ilo? L’ Oficina Regional Andina della Ong Terres des Hommes suggerisce che ci fosse stata una manipolazione di dati per dimostrare l’efficacia dell’intervento abolizionista. Ma prima di trarre conclusioni vediamo qualche altro esempio. Al paragrafo 36 dello stesso rapporto, l’Ilo dichiarò che « In country after country the establishment of universal schooling up to the age of 14 has signalled the effective demise of child labour »28. Peccato che andando a recuperare una nota a piè di pagina riguardo questa statistica, si scopre che la scomparsa del lavoro minorile « country after country » in realtà altro non coinvolgeva che un solo paese, l’India, e come se non bastasse faceva riferimento ad una statistica del 1991! È chiaro come a questo punto non fosse in gioco la sola credibilità dei dati ma la stessa capacità di fornire una valida metodologia di analisi.

Il report globale del 2006 è ormai ampiamente conosciuto tra i movimenti Nats e i suoi sostenitori, diventato oggetto di studio e punto fermo della critica all’abolizionismo per via delle numerose incongruenze di cui ci siamo limitati a fornire solo alcuni esempi. Ma questo rapporto non costituisce un caso isolato o sfortunato. Nel 2013, in occasione della terza conferenza mondiale sul lavoro minorile venne pubblicato un altro studio dal titolo «Misurare la lotta contro il lavoro minorile. Stime e tendenze mondiali tra il 2010 e il 2012»29 in cui ancora una volta si affermava che il lavoro minorile fosse in costante calo. Il 2016 però, anno in cui l’Ilo aveva dichiarato che il lavoro minorile sarebbe stato completamente debellato, era ormai alle porte. Per questo già dal titolo si può notare come il rapporto utilizzasse toni decisamente più cauti e meno altisonanti di quelli utilizzati nel report del 2006. Difatti, dopo aver precisato che «la direzione è giusta ma ci stiamo muovendo troppo lentamente» l’Ilo dichiarava che il lavoro minorile coinvolgeva 47.253.000 bambini (ovvero il 3%) in meno rispetto a quattro anni prima. Se invece prendiamo in considerazione l’arco temporale che va dal 2000 al 2012 il numero di bambini lavoratori diminuiva di quasi il 30%. Ora, ipotizziamo pure che non disponiamo di dettagli sufficienti per contestare questa statistica; tuttavia, mettendola a confronto con altre statistiche, vediamo come ad esempio, l’ONU appena l’anno precedente, aveva pubblicato un documento nel quale attestava che il lavoro minorile nel mondo era in costante aumento e che di questo passo, nel 2020 ci sarebbero stati oltre 190 milioni di bambini lavoratori30. Come si spiega la presenza di dati tanto diversi tra loro? Per rispondere a questa domanda prendiamo in esame un ultimo esempio tratto dall’articolo «Il rapporto globale dell’Ilo: il trionfo della ragione metonimica - quando due e due non fa quattro»31 in cui, a proposito del report globale del 2010, l’autore denuncia che «c’è stata una evidente manipolazione di dati» al fine di alterare l’andamento della curva e far risultare la decrescita del lavoro minorile. Il testo prosegue prendendo in analisi il report dell’Ilo in cui viene affermato che «tutti i dati corrispondenti ad America Latina e Caraibi per l’anno 2004 sono stati modificati» in quanto i dati più recenti praticamente mostrerebbero che le stime fatte sei anni prima presentavano degli errori. Per quantificare a quanto ammonta questa «leggera modifica» si è andato quindi a prendere in mano il report del 2004 scoprendo che l’errore nelle stime era pari a 5.347.000 di bambini lavoratori in più, tutti concentrati in America Latina. Il che significa che se si fossero mantenute le stime originali si sarebbe registrata non una diminuzione ma una crescita del tasso di bambini lavoratori di quasi il 50%!32 Basterebbe solo questo dato per smontare l’intero apparato statistico dell’Ilo fino al 2006.

Supponiamo però che ci sia stata davvero una decrescita del lavoro minorile, non dovrebbe essere compito della ricerca anche indagare su che fine hanno fatto i milioni di bambini che hanno smesso di lavorare? Hanno tutti iniziato a frequentare la scuola? O continuano a lavorare in attività illecite per nascondersi dalle politiche abolizioniste? O forse semplicemente muoiono di fame? Senza considerare poi che molte categorie di bambini coinvolti in lavori pericolosi non sono prese in considerazione dai report dell’Ilo. Come si può quindi decretare la completa abolizione del lavoro minorile quando ne viene considerata solo una parte?

Mettendo per un attimo da parte i numeri e le statistiche, una delle critiche più frequenti che i movimenti dei Nats muovono al programma abolizionista è la mancanza di un solido apparato teorico. In nessuno dei documenti resi pubblici fino ad oggi dall’Ilo compare un qualsiasi tipo di riflessione sul concetto di lavoro minorile. In nessuno dei report, né nelle definizioni destinate alla elaborazione delle statistiche, né nei testi di materia economica o in qualsivoglia tipo di documento le argomentazioni dell’Ilo vengono sostenute da un quadro storico o culturale, da ricerche o da studi, siano questi pedagogici o sociali. Oltretutto, fatto ancora più significativo, è che l’Ilo mai ha preso in considerazione il punto di vista dei movimenti organizzati di Nats o si è interessata al discorso storico, sociale e culturale che ha portato alla creazione di un movimento mondiale che sostiene il lavoro dei bambini. Si limita pertanto a definirlo come «problema» per giustificarne l’eliminazione come unica azione possibile. Alla mancanza di argomentazioni concettuali si affianca inoltre l’atteggiamento dell’Ilo di rifiutare il confronto con chiunque non sostenga la sua stessa posizione33. Nella Conferenza Internazionale sul lavoro minorile tenutasi in Brasile nel 2013, sono state respinte le richieste delle decine di migliaia di bambini lavoratori sudamericani di partecipare ad un incontro che vuole decidere per loro delle loro stesse sorti (ignorando oltretutto due principi fondamentali della Uncrc: il diritto di partecipazione e l’interesse superiore del bambino). Bambini organizzati in associazione, il cui ruolo di interlocutore è stato spesso determinante nelle decisioni dei loro stessi governi, come nel caso del Manthoc che in Perù ha partecipato attivamente alla preparazione del « Código del niño y del adolescente ».

6. Conclusioni

Il tanto elogiato «dialogo interculturale» pronunciato nei discorsi ufficiali dell’Ilo, sembra di fatto essere un dialogo a senso unico, il cui scopo è quello di censurare le comunità e i movimenti di Nats che non consentono l’implementazione delle Convenzioni e delle strategie per l’abolizione del lavoro minorile. È dalla mancata inclusione politica e sociale che nasce l’emarginazione. Come può il bambino esprimere il suo diritto di partecipazione se non gli è nemmeno permesso di esprimersi sulla sua vita e sul suo lavoro? Ma al di là di un atteggiamento che viene definito dai movimenti di Nats, neocoloniale ed eurocentrico34, bisognerebbe iniziare a porsi delle domande sulla reale efficacia dell’abolizionismo. Mettendo da parte per un attimo il dibattito ideologico su quali siano le politiche giuste o sbagliate da attuare, l’abolizionismo in questi anni, statistiche alla mano, si è rivelato una pratica inefficace per combattere lo sfruttamento del lavoro minorile. Nel 2003 se ne è accorta anche l’associazione Save the Children che in uno studio sul lavoro minorile ha dichiarato che «Ritirare i bambini dal lavoro senza pensare all’impatto che ciò avrà sulla loro sopravvivenza e sul loro sviluppo significa non pensare al loro interesse superiore». Gli interventi che mirano a ritirare i bambini dal lavoro senza implementare al contempo delle politiche e delle strategie di intervento per la loro partecipazione sociale producono spesso risultati opposti a quelli sperati, lasciando i bambini ancora più vulnerabili ed esposti a pericoli di vario tipo. Il lavoro dei bambini inoltre, fornisce spesso un ingresso economico importante che evita alla famiglia di sprofondare in una situazione di povertà ancora peggiore35. Proibire loro di lavorare, senza lasciare un’alternativa, significa solo aggravare la situazione di povertà del bambino e della sua famiglia. Questa situazione andrebbe in primo luogo ad abbattersi sull’alimentazione e sulla loro stessa educazione, dal momento che i bambini che lavorano, contrariamente a quanto pensa l’Ilo, spesso riescono a pagare le spese per la propria istruzione, proprio grazie alle entrate che producono col loro lavoro. Una politica che sostenga i bambini e le famiglie con le spese per l’educazione sarebbe, per quanto limitata, sicuramente più efficace che non impedire ai bambini di lavorare.

In altre parole, l’abolizionismo si preoccupa di eradicare le conseguenze e non le cause. I bambini lavoratori peruviani furono tra i primi a denunciare questo tipo di politica che di fatto, non riconoscendo il loro diritto al lavoro, li trasforma in criminali: «per il semplice fatto di lavorare ci considerano come delinquenti o come se fossimo malati, da riabilitare e reincorporare nella società»36. Senza contare che la criminalizzazione del bambino porta con sé maggiore diffidenza anche da parte della gente, traducendosi in maggiore violenza adottata nei loro confronti, specie da parte della polizia o delle autorità. Il lavoro è spesso una necessità dettata dalla povertà, una condizione che diventa di fatto imprescindibile, ed è per questo che all’abolizione del lavoro onesto corrisponde nella maggior parte dei casi un aumento del lavoro clandestino, un fenomeno sicuramente più pericoloso, difficile da controllare e regolamentare, foriero di una maggiore esposizione a rischi e pericoli. Le politiche sull’età minima non fanno altro che estendere queste conseguenze alle fasce più giovani di bambini lavoratori, creando di fatto una sorta di «situazione irregolare» diffusa, pari a quella instauratasi in Perù nel primo dopoguerra37. La situazione di irregolarità trova risposta nella violenza sociale e nelle misure repressive che, per arginare la situazione illegale di migliaia di bambini ed occultarla agli occhi di una società che si vuole legale, impone un inasprimento delle sanzioni penali. Paradossale il caso di Panama dove si cercò di adottare la pena di morte per chi fosse considerato «irregolare», progetto che alla fine non fu approvato per il mancato raggiungimento della maggioranza38.

Attualmente l’abolizionismo si sta impegnando per diffondere una visione secondo cui esistono popoli che favoriscono il lavoro minorile a causa di un modello culturale ancestrale e interpretazioni religiose che è necessario cambiare, manifestando così l’uso di un registro neocoloniale ed omogeneizzante che considera sottosviluppata qualsiasi cultura tenti di svincolarsi dal profilo di presunto progresso secondo l’Ilo39. Considerato l’interesse superiore del bambino e i risultati ottenuti nel campo del lavoro minorile negli ultimi anni, ci chiediamo se invece di cambiare la cultura dei popoli non sia più opportuno ripensare il modo di concepire questo fenomeno40. Abbiamo visto come ad oggi il modello abolizionista dell’Ilo, l’imposizione delle convenzioni, la categorizzazione arbitraria del lavoro minorile, la mancanza di un solido quadro storico-concettuale, i risultati basati esclusivamente su parametri quantificabili e misurabili, la creazione di definizioni universali e di un piano strategico unico da applicare ed imporre a realtà diverse tra loro, lascino molti dubbi sull’efficacia di questo sistema. Senza contare le difficoltà operative che tale metodo comporta, messe in evidenza da studi e statistiche imprecisi o incongruenti. È forse necessario ricominciare a riflettere su quali siano le reali cause all’origine della diseguaglianza e della condizione di molti bambini, che spesso trovano nel lavoro l’unica soluzione alla sopravvivenza. «Non siamo il problema ma parte della soluzione!» è il monito che ormai da anni rappresenta il simbolo della lotta del movimento dei Nats, fino ad ora rimasto inascoltato. Concludiamo con un pensiero di buon auspicio tratto proprio da un report dell’Ilo: «La sfida per il nuovo millennio è convertire il recente rinnovato interesse internazionale per il problema del lavoro minorile in uno sforzo effettivo coerente e sostenibile in nome dei bambini lavoratori»41. Augurandoci che in futuro, quando si parla in nome dei bambini lavoratori, si abbia perlomeno la premura di ascoltarli.

« Es crucial, aceptar que vida del NNA no tiene que depender de los caprichos de la sociedad adulta, ni de si un país está en guerra o en paz, ni de qué partido concreto ocupa el poder, ni de si la economía está bien o mal administrada, ni de si se han pagado o renegociado las deudas externas, ni de si han subido o bajado los precios de las exportaciones, ni de ningún otro altibajo en las interminables e inevitables oscilaciones de la vida política y económica del moderno Estado nacional »42

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1 Traduzione dell’autore. In A. Cussiánovich, Apport des enfants travailleurs péruviens à la pensée sociale sur l'enfance, Ifejant, Lima, 2009, p. 158.

2 Elemento fondamentale delle lotte sociali fu la cosiddetta « teología de la liberación », nella quale un ampio settore di credenti cristiani iniziò ad identificarsi con i poveri del continente. La cosmovisione andina reinterpretò le sacre scritture e la fede in Gesù Cristo come fede verso i poveri, gli emarginati, i sottomessi. Anche il movimento dei bambini lavoratori, come vedremo in seguito, fu ampiamente ispirato da queste ideologie. Vedi anche: J. Lois, Teologia de la liberacion, opcion por los pobres, Iepala, Madrid, 1986.

3 Definizione di M. Martinez Muñoz, Los movimientos de niños, niñas y adolescentes trabajadores. Una minoría activa por una vida digna, in Nats Revista Internacional n. 16, Ifejant, Lima, 2008.

4 L’espressione Nats, ossia «bambini, bambine e adolescenti lavoratori» intende distinguersi dalla dicitura «lavoro minorile» in quanto, già alla fine degli anni ’80 era evidente come quest’ultima si fosse convertita in un costrutto ad hoc per deplorare qualsiasi forma di lavoro svolta da minori e sostenere le retorica abolizionista. Questa connotazione negativa si è mantenuta nel tempo e si è anzi rafforzata; tuttora nella maggior parte dei testi che trattano di lavoro minorile viene spesso utilizzata come sinonimo di sfruttamento.

5 È necessario precisare che, né la creazione dell’associazione, né la sua gestione durante i primissimi anni di vita fu opera dei soli bambini lavoratori. Fu piuttosto uno sforzo sociale congiunto che, solo una volta maturato, fu lasciato in mano ai legittimi proprietari.

6 Cfr. http://www.natsper.org/2011/11/18/I-movimenti-NATs/ consultato a gennaio 2018.

7 Il Perù fu uno dei primi paesi ad adottare la Uncrc. Firmata il 26 gennaio 1990 e ratificata il 4 settembre, entrò in vigore il 4 ottobre dello stesso anno. Il bambino per la prima volta veniva riconosciuto in quanto soggetto di diritto, sociale ed economico. Per garantire ciò, la Uncrc si avvale di un testo che possiamo ricondurre a quattro principi fondamentali: Non discriminazione (art.2), Interesse superiore del bambino (art.3), Sopravvivenza e sviluppo (art.6), Partecipazione.

8 Tra le varie associazioni che hanno contribuito a creare il Mnnatsop un caso particolare è costituito dall’associazione Colibrì, un’iniziativa della polizia nazionale che oltre a supportare i Nats, in particolare nelle province, si occupa anche della formazione degli ufficiali sui temi di lavoro e infanzia. Il progetto è supportato da Save the Children Svezia, Unicef, Unesco e diverse Ong locali.

9 Su iniziativa ancora una volta del Manthoc, nel 1988 venne celebrato il primo incontro latinoamericano delle organizzazioni di Nats.

10 Data scelta non a caso in quanto si pone agli antipodi rispetto al 12 Giugno, giornata della marcia globale contro il lavoro minorile promossa dall’Ilo. «La marcia globale ha messo bambini contro bambini, ha istigato i bambini contro i loro coetanei lavoratori, contribuendo a stigmatizzare i Nats ed esaltando la scuola come la sola e unica risposta valida, non tenendo in considerazione la complessità di realtà culturali diverse». Traduzione dell’autore. In: A. Cussiánovich , Ensayos sobre infancia II. Sujeto de derechos y protagonista, Ifejant, Lima, 2010, p. 72. L’autore ci racconta inoltre come nel bel mezzo della Global March contro il lavoro minorile del 1998, il Manthoc festeggiò la notizia di aver ottenuto un accordo con la municipalità di Lima per l’assunzione di adolescenti nella pulizia delle aree verdi comunali.

11 A questo proposito è diventata famosa la frase pronunciata da un NAT «Non ho paura perché il movimento adesso sta in mano ai bambini». La frase fu pronunciata nel 1986, quando la gestione del Manthoc fu lasciata completamente agli stessi bambini e ragazzi, inaugurando così un nuovo ciclo culturale.

12 Traduzione dell’autore. L’aneddoto e alcune delle riflessioni sono state tratte da: A. Cussiánovich, Ensayos sobre infancia I. Sujeto de derechos y protagonista, Ifejant, Lima, 2008, p. 163.

13 Dal report: Ilo, Erradicar las peores formas de trabajo infantil. Guía para implementar el Convenio núm. 182 de la OIT, Ginevra, Ilo, 2002. Traduzione dell’autore. Approvata nel 1999 durante la 87° sessione della Conferenza dell’Ilo ed entrata in vigore quindici mesi dopo, la Convenzione n. 182 intendeva colmare alcune lacune normative ed integrarsi alla precedente Convenzione n. 138 con lo scopo di portare avanti l’azione abolizionista e in particolare eradicare con urgenza le cosiddette «peggiori forme» di lavoro minorile.

14 Nella Uncrc, gli Stati si impegnano a proteggere il fanciullo dallo sfruttamento economico e non dal lavoro.

15 Ilo, Erradicar las peores formas de trabajo infantil. Guía para implementar el Convenio núm. 182 de la Oit, Ginebra, Ilo, 2002, p. 16, 21, 31 e 32. Traduzione dell’autore.

16 Il programma Ipec per l’abolizione del lavoro minorile, operativo in 88 paesi del mondo, con un investimento di 99 milioni di dollari, è quello che in assoluto riceve più finanziamenti dall’Ilo (IPEC, Action against child labour 2012-2013, Ilo, 2014). La preponderanza di questo tema compare nella sua stessa costituzione del 1919. Secondo i Nats l’Ilo ad oggi rappresenta un’istituzione che, alla luce dei cambiamenti sociali, non avrebbe più motivo di esistere, per questo motivo adopera la lotta al lavoro minorile per legittimare la sua stessa esistenza.

17 Traduzione dell’autore. Dal sito del programa Ipec: www.ilo.org/ipec: « El término « trabajo infantil » suele definirse como todo trabajo que priva a los niños de su niñez, su potencial y su dignidad, y que es perjudicial para su desarrollo físico y psicológico ».

18 Usiamo il termine «tollerare» per ricordare che il lavoro minorile, nelle politiche dell’Ilo non è mai completamente accettato ma può essere in alcuni casi, appunto, «tollerato».

19 Per questo motivo i Nats, per tentare di distinguere i due concetti ed evitare locuzione ormai logore, preferiscono usare l’espressione «bambini lavoratori».

20 Traduzione dell’autore. M. Bonnet, Le Travail des Enfants: Terrain de Luttes, éd. Page deux, 1999 in A. Cussiánovich, Ensayos sobre infancia I. Sujeto de derechos y protagonista, Ifejant, Lima, 2008, p. 311.

21 Ricordiamo a questo proposito che, tra le popolazioni andino amazzoniche, non era presente una netta distinzione tra adulto e bambino in quanto le persone si distinguevano in base alle proprie capacità e competenze, secondo il principio di maturità psico-fisica e non di età cronologica. Anche nella società occidentale, «il riconoscimento del bambino in quanto soggetto peculiare, differente dall’adulto, è del tutto recente. La costruzione del bambino in quanto oggetto di protezione e delle cure dell’adulto non ha più di cinque secoli.» Traduzione dell’autore da C. Bácares Jara, Una aproximación hermenéutica a la convención sobre los derechos del niño, Lima, Ifejant, 2012, p.41.

22 Dichiarazione di Save the children in: « Nats Revista Internacional », n.17, Ifejant, Lima, 2009, p. 49.

23 È un problema che in realtà è sempre esistito; il lavoro informale, già dalle prime normative sul lavoro minorile, sia in Perù (vedi la « La Ley de Trabajo de Mujeres y Menores » del 1918) sia nell’ordinamento internazionale, (vedi le diverse convenzioni dell’Ilo), veniva spesso escluso.

24 L’Ilo da parte sua replica che nel definire queste attività «crimini» si rischia di creare confusione, facendo passare il bambino come criminale e non come vittima.

25 Sono molte anche le Ong che ad oggi hanno sposato la causa dell’Ilo, coadiuvando i vari programmi quali l’Ipec e la Marcia globale. Ong che spesso trovano nell’adesione alle politiche dell’Ilo un riscontro economico importante per il proprio sostentamento.

26 Ilo, The end of child labour: Within reach. Global Report under the Follow-up to the Ilo Declaration on Fundamental Principles and Rights at Work, Ilo, Ginevra, 2006.

27 Dati estratti da M. Liebel, Historia de éxito o de desorientación? Anotaciones al informe global de la Oit sobre el trabajo infantil, « Nats Revista Internacional » n. 17, Ifejant, Lima, 2006.

28 Ilo, The end of child labour: Within reach. Global Report under the Follow-up to the Ilo Declaration on Fundamental Principles and Rights at Work, Ilo, Ginevra, 2006, p. 10.

29 Traduzione dell’autore. In Ilo, Medir la lucha contra el trabajo infantil. Estimaciones y tendencias mundiales entre 2010 y 2012, Programa Internacional para la Erradicación del Trabajo Infantil (Ipec), Ginevra, Ilo, 2013.

30 Onu, Child Labour and Educational disadvantage –Breaking the Link, Building Opportunity, Onu, New York, 2012.

31 Traduzione dell’autore. G. Schibotto, El informe global de la Oit: El triunfo de la razón metonímica, « Nats Revista Internacional » , n. 19, Ifejant, Lima, 2010.

32 Nel presente lavoro ci siamo limitati a riportare solo alcuni dei casi più clamorosi. Ci sono però decine di studi che denunciano le incongruenze delle statistiche dell’Ilo e le presunte manipolazioni di dati. Tra i più rilevanti troviamo: G. Schibotto el último informe global de la Oit: los vacíos, las incongruencias, entredichos y confusiones, M. Liebel, I. Saadi, Las estadísticas engañan. Anotaciones sobre el nuevo informe global de la Organización Internacional del Trabajo sobre el trabajo infantil, M. Liebel, ¿Erradicación del trabajo infantil o trabajo digno para niños trabajadores? - Anotaciones al nuevo Informe Global sobre trabajo infantil de la Organización Internacional del Trabajo – Análisis crítico y detallado del « Informe Global OIT 2010 – 2, tutti pubblicati da « Nats Revista Internacional », Ifejant, Lima, 2010-2013.

33 In un report del 2007, si spinge ancora più in là criticando chiunque, tra gli attori internazionali, abbia intrapreso strategie diverse dalla sua: Onu, Pnud, Banco mondiale, Ong, movimenti di consumatori; concludendo che l’Ilo è iniziatrice e proprietaria di tutto quanto concerne il lavoro minorile. Vedi A. Fyfe, El movimiento mundial contra el trabajo infantil: Avances y dirección futura, Ilo, Ginevra, 2009, pp. 72-74.

34 Vedi anche E. Lander, La colonialidad del saber: eurocentrismo y ciencias sociales. Perspectivas latinoamericanas, Clacso, 2003.

35 Sull’apporto del lavoro dei bambini all’interno del nucleo familiare vedere: M. E. Rausky, Trabajo y familia: el aporte de los niños trabajadores a la reproducción del hogar. Trabajo y sociedad, in: www.scielo.org.ar/scielo.php?script=sci_arttext&pid=S1514-68712009000100005, consultato a gennaio 2018. Si stima che in America Latina in media, il lavoro del bambino produca circa il 20% delle entrate economiche familiari.

36 http://www.tu-berlin.de/fak1/gsw/proNats/doku/mnNatsop.html, consultato a dicembre 2017

37 Era la cosiddetta « Ley de vagancia », ovvero legge sul vagabondaggio, ampiamente criticata a suo tempo. Era considerato « vago » chiunque non tenesse lavoro, occupazione legittima o altri mezzi di sussistenza. Le pene per costoro andavano in genere dall’espulsone al lavoro nelle infrastrutture o nelle opere pubbliche. Siccome la legge non definiva un’età minima per il « vago », molti bambini furono puniti al pari degli adulti. La legge rimase in vigore fino al 1986. Questa condotta da parte dello Stato prese il nome di « situacion irregular ». Cfr. A. Cussiánovich, Ensayos sobre infancia II, Sujeto de derechos y protagonista, Ifejant, Lima, 2010 e B. Van der Maat in M. Liebel, M. Martínez, (coordinato da), Infancia y Derechos Humanos. Hacia una ciudadanía participante y protagónica, Lima, Ifejant, 2009. I segni di questa visione di infanzia «irregolare» sono ancora in parte visibili all’interno della società odierna.

38 Fonte: Bice International, Mañana, que mundo para nuestros niños Toma de posición de la región América Latina, «Nats Revista Internacional», n. 17, Ifejant, Lima, 2009.

39 Si possono trovare diversi articoli a riguardo su www.ilo.org/gender, consultato a dicembre 2017.

40 Vale la pena soffermarsi un attimo sul valore che le culture tradizionali peruviane attribuivano al lavoro, e in particolare al lavoro della terra, il quale non costituiva un’attività economica dalla quale trarre profitto, quanto piuttosto un rituale che aveva come obiettivo la riproduzione della natura stessa prima ancora che la soddisfazione delle necessità umane. L’intera comunità, a prescindere dall’età cronologica, partecipava al rito del lavoro secondo le proprie capacità e competenze. Particolare attenzione veniva prestata alla formazione dei bambini a cui già da piccoli si insegnavano i mestieri e si inculcava loro il senso di responsabilità sociale. È da queste premesse di lavoro sociale, etico, ludico ed educativo che si è sviluppato il concetto di valorizzazione critica del lavoro minorile.

41 A. Fyfe, El movimiento mundial contra el trabajo infantil: Avances y dirección futura, Ilo, Ginevra, 2009, p. 3. Traduzione dell’autore.

42 Unicef, Estado Mundial de la Infancia, New York, 1990. p. 7

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Details

Title
Il movimento dei bambini e adolescenti lavoratori in Sudamerica. Un diverso punto di vista sul lavoro minorile
Year
2018
Pages
20
Catalog Number
V434674
ISBN (eBook)
9783346172709
ISBN (Book)
9783346172716
Language
Italian
Keywords
Work, children, labour, NATs, Peru, South America
Quote paper
Anonymous, 2018, Il movimento dei bambini e adolescenti lavoratori in Sudamerica. Un diverso punto di vista sul lavoro minorile, Munich, GRIN Verlag, https://www.grin.com/document/434674

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