La natura giuridica degli accordi fra Stati

Contributo all'edificio giuridico del diritto internazionale


Scientific Essay, 2012

121 Pages

Georg Jellinek (Author)


Excerpt


Indice

Prefazione – di Giuliana Scotto
1. Il testo sulla natura giuridica degli accordi fra Stati nel percorso di pensiero di Georg Jellinek
2. Struttura e temi principali di “La natura giuridica degli accordi fra Stati”
3. Perché tradurre il testo di Jellinek all’inizio del III millennio
4. Potestà statale e sovranità nel pensiero di Jellinek. Diritto, limite e soglia
5. Etica e diritto
6. Alcune note e avvertenze sulla presente traduzione italiana

La natura giuridica degli accordi fra Stati. Contributo all’edificio giuridico del diritto internazionale – di Georg Jellinek
Premessa
Introduzione
Capitolo primo
Capitolo secondo

Prefazione di Giuliana Scotto

1. Il testo sulla natura giuridica degli accordi fra Stati nel percorso di pensiero di Georg Jellinek

Il breve lavoro di Georg Jellinek dedicato alla natura giuridica degli accordi fra Stati si colloca nella produzione tardo-giovanile del pensatore austriaco. Dico “pensatore” e non “filosofo” né “giurista”, ma neppure “filosofo del diritto” né “della politica”, in quanto è vero che in un certo senso – per chi vi si accosti con la mentalità filologica che in quanto moderni ci trasciniamo dietro, rassicurante fardello, dal secolo diciannovesimo – Georg Jellinek è stato tutto ciò, vale a dire giurista e filosofo, sia del diritto che della politica. Nondimeno dire “pensatore” contiene in sé il desiderio di strappare la sua figura dalle maglie della storia lontana in cui è relegata, ai margini tanto della filosofia di scuola che del lavorio prudente sullo jus (sorta di circoscritta frònesis). Jellinek ha pensato sul diritto, si è interrogato sul suo senso e sulla sua funzione a fini sociali e di giustizia. Si è chiesto quali siano i meccanismi ultimi nei quali risiede l’efficacia delle norme giuridiche, in altre parole quali siano i modi e i mezzi per imporre il rispetto di tali norme, in particolare nel caso che forse alimenta tutta l’interrogazione intorno al diritto in quanto tale – vale a dire nel caso della loro violazione.

Cercando di fare i conti con il nascente formalismo giuridico positivista, tenendo in considerazione il problema del rapporto diritto-sovranità, Jellinek ha tentato di indicare una direzione possibile dell’uso del diritto allo scopo esplicito di eliminarne gli abusi molto prima che il diritto conoscesse le gravi strumentalizzazioni sofferte nel corso del novecento, dove per diritto si è intesa la norma, concepita come sradicata dalla dimensione etica, purché posta, a costo di qualunque suo contenuto. Georg Jellinek non ha mai saputo che due guerre avrebbero insanguinato il mondo e specialmente l’Europa; la sua vita si spegne nel 1911 quando egli, appena sessantenne, ha consegnato alla posterità la versione già rivista della sua opera più consistente e matura, la Allgemeine Staatslehre[1] , dedicata all’essenza dello Stato, lavoro, questo, appassionato e interlocutorio nel suo aggirarsi fra varie questioni sottese dal fenomeno della potestà statale, e ciononostante costantemente riecheggiante, come un basso continuo, il limite che necessariamente attraversa ogni compagine statale in quanto determinazione storica. Lo scritto sulla dottrina generale dello Stato è tuttavia rimasto al margine della grande corrente che ha sospinto la riflessione sull’intreccio fra diritto e politica, su democrazia e tirannide, diritti fondamentali e olocausto, e fra tante voci autorevoli quella di Jellinek, che non ha potuto misurarsi al banco di prova delle guerre mondiali e dei rivolgimenti che in ogni ambito hanno segnato indelebilmente il secolo scorso, s’è affievolita, ricacciata nel quadro di interpretazioni sbrigative. Tali interpretazioni, mettendo in evidenza come secondo Jellinek il fondamento del diritto andrebbe ravvisato nella volontà, hanno contribuito alla vulgata per la quale secondo il nostro autore il fondamento del diritto, e specialmente del diritto internazionale[2] , risiederebbe in ultima analisi nella volontà concepita come arbitrio.

Dunque è per il lavoro sulla dottrina generale dello Stato che Jellinek è per lo più ricordato. E non tanto dai giuristi quanto piuttosto dai teorici del diritto o della politica, e ciò benché egli sia stato giurista per formazione e abbia insegnato diritto pubblico presso l’Università di Heidelberg[3] . Il motivo fondamentale per il quale Jellinek non è ricordato fra i giuristi è rappresentato dal fatto che, mediante lo studio del diritto pubblico (invece che del più tecnico e solido diritto civile), egli si è posto subito a margine rispetto alle attività e ai problemi cui per lo più i giuristi si dedicano, e così non ha potuto offrire a questi ultimi strumenti immediatamente applicabili alla soluzione di singoli casi pratici. La riflessione sullo Stato maturata da Jellinek ha invece preferito toccare il fenomeno statale così come esso si andava configurando alla fine dell’ottocento e prima ancora delle evoluzioni e degli sconvolgimenti che avrebbe conosciuto nel secolo delle due guerre mondiali. Rispetto al periodo in cui Jellinek matura le proprie idee intorno alla natura dello Stato, nel corso del novecento si assiste a un profondo ripensamento di questo istituto basilare della vita in comune, e ciò non soltanto dal punto di vista degli assetti politici, scossi e rimescolati a conclusione delle due guerre, ma anche grazie al consolidamento di alcuni concetti di base. Fra questi si pensi a quello di Stato-apparato o Stato-governo che tanto profondamente si sono radicati nella dottrina internazionalistica, soppiantando in particolare il concetto schmittiano che ricollegava lo Stato in senso moderno alla sua base territoriale[4] .

E tuttavia, rispetto a queste evoluzioni che il concetto di Stato e per conseguenza anche quello di diritto avrebbero conosciuto nel corso del novecento, il pensiero di Jellinek è stato tramandato come se la sua meditazione non fosse ormai più attuale. A tale riguardo, può riportarsi la riflessione di Vittorio Emanuele Orlando il quale, all’indomani della fine del primo conflitto mondiale, nella sua Avvertenza preliminare all’edizione italiana dell’ Allgemeine Staatslehre, motivava il ritardo più che ventennale della versione italiana rispetto alla prima apparizione in lingua tedesca con la seguente osservazione: “quale interesse poteva mai attribuirsi allo studio dei problemi concernenti lo Stato, la natura e i rapporti di esso, nell’ordine interno e in quello internazionale, mentre la guerra stessa, sia pure per ripercussione indiretta, metteva in questione tutto questo medesimo complesso di problemi?”[5] .

Ma l’oblio, almeno parziale, al quale sembra esser stato consegnato il pensiero di Jellinek è motivato non soltanto dal fatto che il suo lavoro più importante, apparso agli albori del XX secolo, per forza di cose non ha potuto fare i conti con le questioni aperte dall’affermarsi, proprio nel corso del novecento, di vari regimi totalitari. A mio avviso, il motivo principale di questo oblio risiede nel fatto che, nella Allgemeine Staatslehre, Jellinek matura la convinzione, già affiorante in altri scritti, secondo la quale il fondamento del diritto e dello Stato deve rinvenirsi nella dimensione etica[6] (sviluppando così un’idea già cara a Hegel[7] ) ma in un tempo in cui invece era il positivismo giuridico ad andare per la maggiore, e così sarebbe stato per i decenni a venire in modo sempre più intenso, grazie soprattutto alla declinazione formalista del positivismo offerta da Hans Kelsen. Jellinek manteneva il diritto ancorato all’etica, discuteva il fondamento del diritto rinnovando questioni di diritto naturale irrisolte e forse irrisolvibili; Kelsen, invece, anche grazie al suo grande rigore argomentativo unito a una non comune capacità immaginifica[8] , convinceva studiosi e uomini politici che il contenuto delle norme giuridiche è altra cosa rispetto al contenuto delle norme morali e, individuando la specificità della norma giuridica nel fatto di esser posta dal potere statale, a prescindere dal suo contenuto[9] , sgomberava il campo da questioni di principio quali la giustizia, la morale ecc. su cui la modernità, tendenzialmente radicata dal lato del soggettivismo, non riesce a trovare criteri risolutivi che riescano ad abbracciare una volta per tutte il lato dell’universalità e della condivisibilità. A prescindere dalle applicazioni estreme che il formalismo kelseniano possa aver conosciuto – le quali condurrebbero per esempio ad affermare la natura pienamente giuridica delle leggi razziali in quanto poste dal Terzo Reich, operando così una scissione rispetto al problema del loro contenuto morale o di giustizia –, è inoltre indubbio che il grande fascino della teoria kelseniana risiede anche in una sorta di dimensione etica intrinseca, vale a dire tutta raccolta e implicata nell’attività di interpretazione della norma in quanto appartenente a un sistema giuridico basato sulla Grundnorm e non su valori estrinseci non codificati nell’ordinamento giuridico.

L’interpretazione della norma giuridica in senso strettamente formalistico richiede all’ermeneuta – giurista, filosofo che sia – di abbandonare i propri valori e le proprie convinzioni personali al fine di abbracciare qualcosa di oggettivo, di posto e pertanto di almeno relativamente inamovibile, cioè di non disponibile secondo il capriccio soggettivo. Il formalismo kelseniano chiede all’interprete di uscir fuori di sé, di abbracciare qualcosa che esiste oggettivamente in quanto posto dagli organi dello Stato e di darvi corretta attuazione, secondo una logica che riecheggia il sacrificio personale, la rinuncia al proprio codice etico o religioso nel nome dell’indisponibilità del diritto, ciò che quindi non può evitare di toccare in qualche modo le corde della deontologia professionale[10] . Non è un caso che proprio all’inizio del novecento si sviluppi una riflessione come quella di Max Weber, orientata a estrarre un’etica dei funzionari pubblici, ruote dentate le quali non soltanto “permettono il funzionamento”, “fanno funzionare” la macchina statale secondo criteri di razionalità, ma sono anche essenzialmente “fungibili”, possono cioè essere incontrati come soggetti universali i quali non portano con sé una storia personale, con propri dispiaceri e ambizioni e malumori, o che almeno, per svolgere nella maniera più adeguata i propri compiti, devono accantonare tutto il loro bagaglio soggettivo che li rende esseri umani unici. I funzionari in quanto tali devono “soltanto” far funzionare l’ufficio pubblico cui sono preposti[11] , in quanto l’utente anonimo che vi si rivolge non chiede loro null’altro che il servizio che essi hanno l’incarico e l’onore di svolgere. In qualche modo, sia la riflessione kelseniana che quella weberiana non tanto sembrano aver rinunciato completamente a una coloritura morale del problema della norma giuridica, quanto sembrano aver ricollocato la dimensione etica all’interno del diritto stesso, quasi che tale eticità fosse un risultato automatico (un “in sé”) dell’interpretazione (da parte del giudice) ovvero dell’applicazione (ad opera del funzionario) della norma giuridica[12] . Tale eticità non troverebbe alcuna corrispondenza necessaria con valori morali estrinseci al diritto, e quindi in qualche modo essa sarebbe messa al riparo dalle oscillazioni soggettivistiche cui qualunque codice etico potrebbe sottostare in virtù di un radicamento ancorché minimo nell’interiorità del singolo.

Se si tiene conto di questa direzione portante adottata dalla riflessione novecentesca sul diritto e sulla compagine statale, si coglie in maniera intuitiva come il pensiero di Jellinek, anche nel suo lavoro più maturo e noto, con la sua insistenza sull’aspetto etico quale dimensione estrinseca al diritto nella quale soltanto può rinvenirsi il fondamento ultimo delle garanzie del diritto in quanto tale, possa esser apparso non al passo coi tempi. Se ciò appare comprensibile riguardo a un’opera della consistenza della Allgemeine Staatslehre, ancor più si comprende come mai un testo breve come La natura giuridica degli accordi fra Stati, risalente al 1880, quando l’autore non aveva neppure trent’anni, sia caduto nel dimenticatoio, grazie anche alla lettura sbrigativa che tuttora ne viene data dalla dottrina internazionalistica e cui s’è accennato. Indubbiamente a quest’oblio contribuisce anche il fatto che il diritto internazionale si è notevolmente evoluto dal 1880 a oggi. Non soltanto il lavoro di Jellinek all’epoca in cui è stato redatto non poteva prendere in esame fenomeni macroscopici del diritto internazionale contemporaneo, quali la nascita delle Nazioni Unite, la decolonizzazione, il consolidamento del divieto dell’uso della forza, lo sviluppo della tutela internazionale dei diritti umani. Ma nel 1880 persino la Società delle Nazioni che ora ci appare come un organismo assai rudimentale se paragonata alle attuali organizzazioni internazionali, nonché le prime importanti convenzioni in materia di diritto bellico, erano ancora lontane a venire.

Ma di che cosa tratta questo breve lavoro giovanile?

2. Struttura e temi principali di “La natura giuridica degli accordi fra Stati”

Il titolo completo del testo di Jellinek qui presentato per la prima volta in traduzione italiana recita: La natura giuridica degli accordi fra Stati. Contributo all’edificio giuridico del diritto internazionale. Come accennato, il testo esce a Vienna nel 1880 per l’editore di corte e universitario Alfred Hölder ed è subito recensito da Johann Caspar Bluntschli[13] .

Arricchito di una breve premessa nella quale si intuisce come alla fine dell’ottocento il diritto internazionale fosse oggetto di un dibattito che ne poneva in questione la stessa esistenza in quanto ordinamento giuridico a sé stante, La natura giuridica degli accordi fra Stati si articola in due capitoli preceduti da alcune pagine introduttive dove Jellinek illustra la necessità di rintracciare un fondamento oggettivo del diritto internazionale che consenta di considerare quest’ultimo come vero e proprio fenomeno giuridico – al pari delle varie altre branche del diritto. Richiamando Grozio, in queste pagine introduttive Jellinek parte dal presupposto che ogni principio giuridico, per essere considerato tale, deve radicarsi nella libera volontà o dello Stato o del popolo. Ricordando poi come sia merito di Hegel aver messo in luce che, in mancanza di una volontà generale costituita al di sopra degli Stati, il diritto internazionale vada inteso come posto dalla volontà di questi ultimi, Jellinek rinviene il fondamento del diritto internazionale nella volontà dello Stato, la quale in particolare si manifesta nel fenomeno dell’accordo. Tuttavia per Jellinek l’accordo di per sé non sarebbe in grado di rendere conto del carattere giuridico e obiettivo del diritto internazionale per cui vanno chiariti alcuni punti che contribuiscono a elevare l’ordinamento giuridico internazionale al pieno rango di “diritto” vero e proprio. Se si considerasse il diritto internazionale come consistente dei soli accordi, non si potrebbe infatti fare a meno di concludere per un’ineliminabile carattere soggettivo di tale diritto che si risolverebbe nell’esistenza di fasci di norme giuridiche unilaterali, poste cioè dallo Stato verso l’esterno, le quali soltanto per una casuale coincidenza convergerebbero con norme altrettanto unilateralmente poste da un altro o da altri Stati le quali per avventura si trovassero ad avere contenuto corrispondente. Inoltre non si capirebbe a partire da quale principio accordi così concepiti riceverebbero validità giuridica. In realtà proprio osservando la prassi statale occorre ammettere l’esistenza di norme obiettive che disciplinano i modi di formazione degli accordi, la liceità del loro contenuto, i loro effetti, le modalità della loro estinzione ecc. Ma – pone la questione Jellinek – come vanno considerate tali norme che regolano gli accordi internazionali? Si tratta di norme di diritto naturale, ovvero di norme facenti parte del diritto delle obbligazioni le quali vengono trasposte in via analogica a regolare gli accordi internazionali? E come uscire dall’impasse per la quale “volontà dello Stato sovrano” risuona immediatamente come “arbitrio dello Stato”? Per poter rispondere a tale questione Jellinek ritorna sulla volontà quale fondamento di ogni fenomeno giuridico e osserva come, quando si parla di “volontà dello Stato” a fondamento del diritto internazionale, occorra ulteriormente qualificare tale volontà come “volontà obbligante dello Stato” e intenderla come volontà dello Stato la quale è in grado di obbligare lo Stato stesso. In altre parole Jellinek prende esplicitamente distanza da coloro che intendono la volontà dello Stato in quanto tale come “al di fuori del diritto”. Secondo Jellinek, infatti, la contraddizione insita nell’auto-obbligazione dello Stato ed esposta sul vassoio d’argento dai teorici della sovranità assoluta secondo i quali chi ha il potere (la forza, la potenza, l’autorità, la violenza: Gewalt) di porre il diritto potrebbe non soltanto fare la norma, ma anche disfarla a proprio piacimento, cioè a proprio capriccio, è contraddizione soltanto apparente.

E con il desiderio di addentrarsi in questa contraddizione si apre il primo capitolo de La natura giuridica degli accordi fra Stati. In questa parte, dedicata a indagare la natura della volontà dello Stato, sembra perdersi di vista l’obiettivo fondamentale, o almeno il tema fondamentale del lavoro, vale a dire il fondamento del diritto internazionale. Ma la ricognizione dei caratteri della volontà dello Stato, in primo luogo dal punto di vista del diritto interno, serve a Jellinek per giungere ad affermare che la volontà dello Stato può auto-obbligarsi, e anzi, non può che auto-obbligarsi sempre, in ogni sua manifestazione in quanto manifestazione determinata, sia dal lato interno che dal lato esterno.

A tale riguardo, nello svolgimento della propria argomentazione, Jellinek comincia col prendere in esame alcune celebri, “ruvide” dottrine sulla natura della sovranità statale concepita, se non in prima battuta, almeno in ultima analisi come arbitrio: principalmente quelle di Bodin, di Hobbes, di Rousseau, di Kant. Tuttavia, osserva Jellinek, gli stessi sostenitori di questa visione della natura della sovranità statale finiscono col dover poi trovare limiti all’arbitrio del princeps legibus solutus, rintracciati di volta in volta nella morale, nel diritto naturale, nella volontà divina. Anzi, fa notare Jellinek, l’intero compito della filosofia del diritto sino a Fichte è stato proprio quello di trovare limiti all’esercizio dell’arbitrio dello Stato concepito secondo questa modalità assoluta e ciò in modo da fondare in maniera più garantita l’esercizio dei diritti personali individuali.

Ma, come accennato, concepire una volontà auto-obbligante dello Stato è per Jellinek contraddizione soltanto apparente. Traendo esempio dalla vita pratica, Jellinek ricorda che ogni atteggiamento morale basato sulla volontà di mantenere, conformemente a certi principi professati, un determinato comportamento in maniera durevole nel tempo, anche per esempio nel futuro, nonostante ciò possa comportare un contrasto e una presa di distanza rispetto alla realtà circostante, mostra come la capacità di auto-obbligarsi sia carattere proprio della volontà. Anzi, se la volontà dei singoli non avesse la possibilità di assumere alcun impegno mediante questa capacità di auto-obbligazione, la stessa convivenza fra gli esseri umani sarebbe intollerabile. Ed è proprio grazie alla possibilità che la volontà del singolo vincoli se stessa a quanto essa stessa ha manifestato, che è possibile qualcosa come il fenomeno del diritto. Ciò vale tanto per il singolo che per la collettività la quale, in quanto raccogliente un gruppo di individui tenuti insieme da nessi di varia natura, trova nello Stato la propria espressione più compiuta. L’errore della maggior parte degli studiosi che si sono dedicati al tema della sovranità risiede secondo Jellinek nel fatto di concepire la sovranità come assoluta, nel farla coincidere con l’arbitrio, mentre l’essenza della potestà statale va ravvisata nella “potenza di dare prescrizioni alla propria volontà”, ciò che Jellinek qualifica come autocrazia (Selbstherrlichkeit), capacità di autodominarsi, cioè di produrre diritto il cui destinatario è la stessa potestà statale.

Tale carattere ultimo della potestà dello Stato può cogliersi per Jellinek in particolare se si riflette su vari elementi ricorrenti nella vita degli Stati moderni. Innanzitutto, i diritti fondamentali dei singoli devono essere concepiti come impegno dello Stato a non intrudere nella sfera degli individui, come già messo in luce da Gerber, che Jellinek richiama espressamente. Una diversa concezione farebbe crollare l’intero edificio del diritto pubblico. In secondo luogo, come Jellinek sottolinea ricordando la posizione teorica di Thon, gli stessi poteri fondamentali in cui si articola la potestà statale – legislativo, esecutivo e giudiziario – conoscono fenomeni che ben possono essere interpretati come impegno della volontà statale a obbligare se stessa. Ciò accade per esempio mediante un atto legislativo con il quale la potestà dello Stato, ingiungendo determinati comportamenti alle articolazioni del potere esecutivo (per esempio rivolgendo agli uffici della pubblica amministrazione determinate disposizioni), obbliga se stessa a dare attuazione a quanto stabilito nell’atto legislativo. Dato che sia il potere legislativo sia quello esecutivo sono manifestazioni della potestà statale, mediante l’adozione della legge destinata alla pubblica amministrazione lo Stato vincola se stesso. Come chiarito più avanti, ciò vale anche per i rapporti che il potere legislativo intrattiene con il potere giudiziario. Questi esempi delle varie articolazioni del potere dello Stato indicanti la modalità con la quale la potestà dello Stato vincola se stessa offrono inoltre a Jellinek il destro per agganciare il discorso delle garanzie del diritto al fondamento ultimo dell’etica e per discutere l’attività dello Stato alla luce degli scopi stessi dello Stato. Ma su questo punto dovrò tornare, in quanto è proprio il nesso problematico posto da Jellinek fra etica e diritto ad avermi spinto a presentare in traduzione italiana questo lavoro ormai così lontano nel tempo.

Per riprendere con la sintesi degli argomenti di Jellinek volti a dimostrare come la volontà dello Stato abbia natura di auto-obbligazione, va segnalato che l’autore austriaco rileva poi come – a prescindere dal fatto che le leggi contengano disposizioni indirizzate al potere esecutivo ovvero al giudice nel momento in cui questi sono chiamati a eseguire e applicare la legge nella sua determinazione concreta e non “un’altra legge” –, possa ben affermarsi che è in generale, mediante l’esercizio stesso del potere legislativo in quanto manifestazione della volontà dello Stato, che lo Stato vincola in primo luogo se stesso. Ciò è patente nel fenomeno nella vacatio legis. Nel lasso di tempo fra l’adozione della legge a conclusione dell’ iter di approvazione parlamentare, la sua pubblicazione negli strumenti ufficiali di comunicazione a ciò preposti e l’entrata in vigore per i singoli destinatari delle sue disposizioni, la legge obbliga soltanto la potestà statale, la quale durante la vacatio (dunque prima dell’entrata in vigore) non potrebbe ritirarla né modificarla se non secondo norme costituzionalmente conformi.

Prima di passare specificamente a esaminare come la volontà auto-obbligantesi dello Stato costituisca non soltanto il fondamento del diritto interno, ma anche del diritto internazionale, Jellinek affronta poi quella che egli definisce come “l’obiezione più seria” che possa sollevarsi contro la teoria dell’auto-obbligazione da lui sostenuta. Tale obiezione può essere così riassunta: anche se si ammette che lo Stato nell’esercizio dell’attività legislativa obbliga se stesso, tale auto-obbligazione non è in fin dei conti vacua ab initio, dato che lo Stato, nel quale si concentra la potestà legislativa, può, mediante procedimenti costituzionalmente conformi, con una legge di contenuto contrario in ogni momento vanificare l’obbligo assunto? A questo punto la soluzione proposta da Jellinek è a mio avviso pienamente consapevole della rinuncia che chiede alle teorie fondate sul formalismo giuridico. Tale obiezione è ammissibile infatti soltanto finché si consideri il diritto dal punto di vista formale, ma è proprio questo punto di vista che secondo Jellinek va abbandonato a favore di un approccio sostanziale. E qui torna il tema degli scopi dello Stato. Per Jellinek la posizione del diritto non è uno scopo perseguito dallo Stato che dal punto di vista contenutistico possa corrispondere a motivi arbitrari, ma deve essere orientato da motivi ragionevoli. Certo, il contenuto normativo di un ordinamento giuridico non può predeterminarsi in anticipo, almeno non si può farlo in dettaglio, vale a dire prevedendo con sufficiente precisione quale sarà il contenuto di tutte – o almeno delle più importanti fra le sue norme. Ma per Jellinek è certo che fra gli scopi dello Stato vi è quello di porre il diritto e di proteggere il diritto così posto, sicché mutando le norme esistenti in maniera arbitraria, lo Stato finirebbe per agire in maniera contraria ai propri scopi e dunque contro se stesso, mettendo prima o poi a repentaglio la propria stessa integrità e/o la propria stessa esistenza. Ciò non significa che il diritto positivo, una volta posto, vada considerato come immutabile. Per Jellinek anzi è affidato alla prudenza e alla sensibilità degli organi statali di introdurre quelle modifiche necessarie per corrispondere alle trasformazioni cui la vita dello Stato necessariamente soggiace. Ma – e ciò è espressamente sottolineato da Jellinek – “ogni atto di legislazione che volesse modificare le leggi esistenti corrispondenti allo scopo del diritto[...] sarebbe allora giuridicamente non conforme”, vale a dire sarebbe un atto illecito. Solamente in tal senso può dirsi che per sua propria natura l’auto-obbligazione dello Stato non è mai eterna ma soggiace sempre alla clausola rebus sic stantibus, giacché ogni norma posta dallo Stato sussiste e ha ragione di sussistere soltanto nella misura in cui corrisponda allo scopo dello Stato. Dunque il principio dell’auto-obbligazione così come sostenuto da Jellinek ha senso se si comprende che “[s]oltanto per il tempo in cui i rapporti oggettivi alla cui normazione è determinata la relativa legge restano i medesimi immodificati l’auto-obbligazione dello Stato ha assolutamente forza vincolante per quest’ultimo” (corsivo mio).

Dunque è la volontà auto-obbligantesi dello Stato a costituire il fondamento di ogni fenomeno giuridico: sia all’interno dello Stato, mediante la legge, con la quale lo Stato si rivolge non soltanto ai propri sudditi, ma anche a se stesso; sia all’esterno verso altri soggetti sovrani, mediante l’accordo internazionale. A questo punto Jellinek passa infatti a considerare come la natura di auto-obbligazione della volontà dello Stato nella sua connessione con gli scopi ragionevoli di questo sia principio cardine anche dal lato esterno della volontà statale, vale a dire nei rapporti con altri Stati. Dato che lo Stato per sua natura necessita di completamento, e dunque da questa incompletezza dello Stato scaturisce la necessità di relazionarsi con altri Stati, è necessario il riconoscimento giuridico di questi. Jellinek sottolinea come lo Stato non possa scegliere in maniera arbitraria se entrare o meno in relazione con altri Stati. Gli accordi stipulati con questi sono altrettanto inviolabili come le leggi interne, e pertanto soltanto un motivo ragionevole può dispensare lo Stato dall’obbligo assunto, sia sul piano interno che internazionale. Ma Jellinek previene il lettore che vorrebbe individuare una possibile contraddizione fra la libertà e al contempo la necessità che contrassegnano sia l’adozione dei contenuti delle leggi interne che la stipulazione degli accordi internazionali. Per sciogliere questa apparente contraddizione Jellinek propone alcuni esempi concreti di cui riporto in questa sintesi soltanto quello di più immediata comprensione. Libertà e necessità possono coesistere proprio come nel caso di un individuo che deve nutrirsi – altrimenti il suo corpo deperisce e muore – ma al contempo può scegliere come, quando, quanto e di che tipo di alimenti cibarsi. Così lo Stato è libero di stipulare accordi con altri Stati, ma se lo fa contravvenendo a quelli che sono i propri scopi, può mettere a repentaglio la propria stessa esistenza.

A questo punto si apre la seconda sezione del volumetto, più succinta rispetto alla parte vista sin qui. In questa sezione la preoccupazione principale di Jellinek è quella di dimostrare l’esistenza di un diritto internazionale oggettivo, e non soltanto quale posizione unilaterale dello Stato (cioè come sua attività esterna che solamente in maniera casuale incontra la corrispondente volontà di altri Stati). Ora, per dimostrare che il diritto internazionale non può esser ridotto a mera attività esterna dello Stato, Jellinek osserva innanzitutto come ciò che consente di creare diritto fra due soggetti sia il riconoscimento, cioè il fatto che ciascuno venga riconosciuto dall’altro come titolare di diritti[14] . Dice Jellinek, a mio avviso in parte contraddicendosi e comunque in maniera meno efficace rispetto a quanto osservato a proposito dell’incompletezza dello Stato: “si può entrare in relazione soltanto con qualcuno di cui si riconosca l’esistenza giuridica [...] ubi societas, ibi jus. Lo Stato resta formalmente libero di entrare o meno nella societas. Ma se l’ha fatto, allora insieme con la societas esso ha voluto anche lo jus”. Da qui la natura oggettiva delle relazioni fra Stati, giacché lo Stato, nel momento in cui entra in “relazione di vita con un altro Stato, [...] assume nella propria volontà i momenti oggettivi che regolano questa relazione di vita, essi divengono norme che ne vincolano la volontà mediante la sua volontà”. E, precisa Jellinek, le norme del diritto internazionale non sono propriamente diritto di natura, in quanto tali momenti oggettivi di per sé non sarebbero che vuoti schemi, i quali però ricevono concretezza e vitalità mediante la volontà creatrice dello Stato per il fatto di entrare in relazione con altri Stati sulla base del riconoscimento. Qui Jellinek ricorda come lo stesso jus gentium elaborato dalla giurisprudenza romana, sorto dalla natura stessa delle cose da regolare, sia divenuto diritto delle genti solamente in quanto è stato adottato da “omnes gentes” (jus quo omnes gentes utuntur). Similmente gli Stati, in mancanza di un’autorità sovraordinata cui sia affidato il compito di porre il diritto, “elevano la naturalis ratio a criterio della propria volontà e con ciò la fanno diventare civilis ratio”, sicché può esser creato fra gli Stati un diritto oggettivo fondato sulla natura della cosa. In ciò Jellinek prende le distanze dalla tesi, ancor oggi latente in molti manuali di diritto internazionale, per la quale le norme giuridiche in vigore fra gli Stati sarebbero create “per analogia” con le norme del diritto privato, ovvero sarebbero una trasposizione ai rapporti interstatali di norme provenienti dal diritto privato. In realtà, fra accordo fra privati e accordo fra Stati vi sono soltanto alcuni “punti di contatto”, e la forza produttiva di norme attribuita all’analogia può ammettersi soltanto ove sia lo stesso diritto internazionale a contemplare l’analogia quale fonte di diritto. Una volta chiarito ciò, Jellinek passa a occuparsi delle norme in materia di ratifica degli accordi, prendendo in considerazione sia le questioni relative alla competenza a stipulare, sia quelle riguardanti la natura degli accordi internazionali prima che sopraggiunga la ratifica. Non ritengo utile dilungarmi su questo punto in questa breve sintesi del testo di Jellinek considerato che trattasi di questioni le quali, a seguito dell’adozione della Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati, non vengono attualmente poste seriamente in discussione in modo difforme da quanto proposto dal nostro.

Nella parte conclusiva del suo scritto invece Jellinek spende alcune interessanti riflessioni sul principio fondamentale che domina l’istituto giuridico dell’accordo internazionale, vale a dire pacta sunt servanda. Riproponendo quanto già esposto sopra a proposito del fondamento ultimo del diritto posto dallo Stato dal lato interno, Jellinek precisa qui come i motivi materiali della forza vincolante degli accordi interstatali siano i medesimi che spingono lo Stato a fornire tutela giuridica ai rapporti fra privati, vale a dire sostanzialmente motivi di natura etica, che Jellinek individua proponendo tre “gradi” di “eticità”: moral, ethisch, sittlich (ampliando così la contrapposizione a due termini proposta da Hegel nella sua filosofia del diritto, polarizzata sul rapporto moral-sittlich). Come già accennato, riservo a un secondo momento l’esame di tali questioni, non ultimo anche per via della povertà della lingua italiana che non consente un’adeguata traduzione del termine sittlich, la cui radice etimologica, Sitte, raccoglie insieme i significati di “costume”, “uso”, “principio etico” “costumanza”, “buon costume”. Ciò che qui conta è l’accento, nuovamente posto da Jellinek, sul fondamento etico-morale quale radicamento ultimo delle garanzie del diritto; non sono tuttavia poco problematiche le conclusioni cui l’autore perviene, in quanto per esempio egli considera che un accordo internazionale “unsittlich”, cioè grosso modo “contrario ai buoni costumi”, andrebbe considerato giuridicamente nullo perché altrimenti verrebbe meno una delle garanzie fondamentali del diritto internazionale[15] .

L’ultima parte del testo, considerati i lavori di codificazione che hanno avuto ad oggetto il diritto dei trattati, è indubbiamente la meno interessante. Qui Jellinek tocca, ma in verità senza approfondire granché, quelle che sono le cause di invalidità e di estinzione degli accordi internazionali. Fra le cause di invalidità egli richiama i “classici” vizi della volontà (errore, dolo, violenza esercitata sul plenipotenziario) mostrando così indirettamente quanto problematica fosse già ai suoi tempi la valutazione della liceità degli accordi conclusi mediante la violenza esercitata sullo Stato (per esempio gli accordi di pace). Nella seconda categoria egli annovera alcune fra le cause di estinzione del vincolo pattizio fra Stati (scadenza del termine, distruzione dell’oggetto dell’accordo ecc.) soffermandosi brevemente sulla possibilità che uno Stato si liberi dal vincolo pattizio contratto invocando la necessità suprema della propria autoconservazione. Anche qui, benché in maniera assai stringata, Jellinek argomenta a favore di tale possibilità richiamando l’operatività della clausola rebus sic stantibus già ricordata.

Infine, ancora fra le cause di estinzione degli accordi, Jellinek ricorda l’effetto estintivo del principio inadimplenti non est adimplendum e svolge al riguardo una breve riflessione sull’autotutela in diritto internazionale che per quanto succinta non è priva di implicazioni problematiche, soprattutto alla luce degli sviluppi del diritto internazionale attuale. Per Jellinek l’autotutela sembra dover essere intesa come via di fatto (e non via giuridica) all’attuazione del diritto, e ciò stante la natura sovrana dei soggetti del diritto internazionale[16] .

A questo punto Jellinek ritiene di aver dimostrato sufficientemente l’esistenza del diritto internazionale oggettivo e, nel ribadire che il diritto internazionale, così dimostrato come esistente, trae la propria ragion d’essere dalla natura dei rapporti di vita fra gli Stati fondati a loro volta sul riconoscimento reciproco da parte degli Stati, chiude il proprio discorso.

3. Perché tradurre il testo di Jellinek all’inizio del III millennio

Dopo questa breve sintesi del contenuto del saggio di Jellinek qui presentato per la prima volta in versione italiana, vorrei svolgere qualche considerazione sul motivo che mi ha spinto a tradurre un lavoro che per alcuni aspetti è sicuramente ormai superato. In primo luogo, mi sembra che l’oblìo nel quale, almeno nell’ambito della dottrina internazionalistica, sembra caduto il pensiero di Jellinek riguardo al fondamento teorico del vincolo derivante da accordi internazionali sia dovuto a un essenziale fraintendimento del suo modo di ravvisare tale fondamento essenzialmente nella “volontà dello Stato”. Ma, come accennato, comunemente si considera che, ammettendo quale premessa – dunque a fondamento del diritto internazionale – la volontà dello Stato, la conseguenza logica necessaria da trarre parrebbe essere che il diritto internazionale si fondi sulla volontà dello Stato intesa come arbitrio o comunque si dissolva in una serie di norme semplicemente rivolte verso l’esterno, dunque segnate da un irriducibile soggettivismo – che comunque è in grado di produrre abusi. Ma la breve sintesi appena tracciata dovrebbe aver persuaso il lettore che per Jellinek è di importanza essenziale dimostrare proprio il contrario, e cioè innanzitutto che la volontà dello Stato non va intesa come arbitrio; e poi che il diritto internazionale, pur fondato sulla volontà dello Stato, è diritto oggettivo e sarebbe riduttivo intenderlo come mero diritto statale rivolto verso l’esterno. In questo punto, anzi, Jellinek, servendosi di temi, termini e snodi fondamentali del pensiero hegeliano, mi sembra rappresentare un importante anello di congiunzione fra, da un lato, la filosofia del diritto facente capo allo stesso Hegel – secondo il quale, non senza ambiguità, il diritto internazionale non pare riuscire a stabilizzarsi in una dimensione oggettiva ma sempre sottostà alla volontà particolare dei singoli Stati[17] – e, dall’altro lato, la riflessione sul diritto internazionale (condotta nel novecento soprattutto da giuristi) che accantonerà il problema del diritto internazionale oggettivo come falso problema, tant’è che fra gli studiosi del diritto internazionale contemporaneo la natura obbiettiva[18] di questo ordinamento giuridico così peculiare non viene praticamente più revocata seriamente in dubbio.

In secondo luogo, al di là di quelli che poi sarebbero stati gli sviluppi del diritto internazionale nel corso del novecento e che Jellinek certo non poteva prevedere, è proprio il motivo che l’ha destinato all’oblio a rendere ora necessaria una rivalutazione del suo pensiero. Dopo vari decenni in cui la teoria pura kelseniana ha dominato la riflessione sul fenomeno giuridico determinando l’approccio formalista allo studio e all’applicazione del diritto, in particolare dopo aver assistito alla deriva catastrofica che una visione soltanto formale del diritto ha portato con sé[19] , qualche correttivo in senso sostanzialista[20] sembra indispensabile per non correre il rischio di ripetere l’errore di rivestire di una patina di legalità fatti aberranti come genocidi, sparizioni di massa, misure armate contro persone inermi.

Corrispondendo in qualche modo alla necessità di operare tale correttivo all’approccio formalista, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale il grande movimento di riassetto interno degli Stati più progrediti si è volto innanzitutto ad affermare l’inviolabilità di alcuni diritti individuali ritenuti “fondamentali”. In secondo luogo, all’interno di alcune costituzioni sono stati inseriti meccanismi per garantire tale inviolabilità dei diritti fondamentali e porre i sistemi democratici al riparo da sovvertimenti in senso dittatoriale attuati mediante strumenti normativi che della legalità mantengono soltanto la parvenza. Il più diffuso di tali meccanismi – quasi grado-zero degli ordinamenti democratici – risiede come noto nel carattere rigido di cui sono dotate ormai la maggior parte delle costituzioni che contemplano diritti inviolabili[21] . Ma questa evoluzione “sostanzialista” non ha soltanto conosciuto un approfondimento dal versante interno dei diritti nazionali, bensì, come noto, ha anche trovato notevole impulso e rafforzamento mediante lo sviluppo dei diritti umani in quanto diritti inviolabili a livello internazionale, sia pattizio che generale[22] . Inoltre, per gli Stati come il nostro, coinvolti nel processo di integrazione europea, la ratifica del Trattato di Lisbona ha determinato il recepimento anche a livello europeo – quindi in una sorta di posizione intermedia, ancorché giuridicamente discontinua fra diritti interni e diritto internazionale – di una serie di norme in materia di diritti umani fondamentali le quali rafforzano ulteriormente i diritti individuali e le loro possibilità di esercizio[23] .

Come può dunque cogliersi da queste brevi considerazioni, nello sviluppo della teoria giuridica del novecento può rilevarsi un filo conduttore il quale mostra una evoluzione la quale più o meno consapevolmente muove verso una ricusazione del formalismo giuridico nel senso proposto da Kelsen e delle sue derive più aberranti. Benché l’autorevolezza di Kelsen non sia messa in discussione, giacché l’ermeneutica giuridica è o dovrebbe essere, almeno nel nostro Paese, ancora legata al rigoroso approccio logico-deduttivo grazie al quale il nostro ordinamento giuridico in quanto sistema può essere percorso in trasparenza dai principi primi (carta costituzionale) sino alle più minute norme di dettaglio e di grado infimo, il contenuto di alcune norme fondamentali è protetto dalle distorsioni che l’adozione di interpretazioni meramente formalistiche rischierebbe di produrre[24] .

Ora, alla luce di quanto osservato, mi sembra interessante rilevare come Jellinek già nel breve scritto qui tradotto abbia messo l’accento sulla opportunità di accostarsi al diritto in senso sostanziale, e ciò molti decenni prima che la storia degli ordinamenti giuridici novecenteschi si avviasse verso le derive provocate dai regimi dittatoriali. A tale riguardo, e con grande lungimiranza, se si tiene conto dello sviluppo in senso sostanzialista che tanti sistemi giuridici hanno esperito nel corso del novecento, Jellinek osserva:

dobbiamo abbandonare il punto di vista giuridico formale per indagare quali siano i momenti che guidano la volontà dello Stato nella creazione del diritto. Infatti la determinazione di ciò che deve diventare diritto è necessariamente dipendente dal momento sostanziale del diritto e dello Stato. Pertanto qui abbiamo bisogno di rivolgerci alla natura dello Stato al fine di chiarire il processo che determina lo Stato a dare alla propria volontà un contenuto concreto”[25] .

E la natura dello Stato che Jellinek si propone qui di indagare non è accostata nel senso formalista suggerito dalla dottrina kelseniana, ma al contrario, è orientata dall’attenzione agli scopi dello Stato, i quali per Jellinek non possono che essere identificati in senso sostanzialista, vale a dire dal punto di vista del loro contenuto, che per Jellinek deve essere “ragionevole”. Come si legge nelle sue parole, infatti,

“[c]omunque si voglia pensare all’essenza dello Stato, una cosa ancor oggi è posta al di là di ogni dubbio: che essa non può essere intesa come arbitrio, che a determinare la volontà dello Stato non sono ghiribizzi lunatici, ma motivi ragionevoli. Non è materialmente riposto nel capriccio dello Stato se esso in generale voglia creare un ordinamento giuridico e quale contenuto questo debba possedere”[26] .

In altri termini, Jellinek pone l’accento sul fatto che, benché non possa predeterminarsi in anticipo il contenuto delle norme giuridiche che verranno create dallo Stato, in ogni caso tali norme debbono essere ragionevoli, e non possono essere il frutto di una volontà arbitraria. “Ragionevole” indica qualcosa che, come nel caso di “razionale”, si radica nella facoltà umana della “ragione”. Ma nonostante questa comune radice nella ragione, “ragionevole” è qui in qualche modo opposto a “razionale”. “Razionale” è radicato nella ragione in quanto qualifica un giudizio fondato su criteri puramente logico-deduttivi, in modo incurante dei contenuti elaborati e del loro impatto pratico-concreto. La dottrina pura del diritto elaborata da Kelsen sembra radicarsi lungo il versante della razionalità nella misura in cui ammette in quanto giuridiche norme di qualsivoglia contenuto, purché concatenate da criteri logici in senso formale. La “ragionevolezza” di cui parla Jellinek invece si situa sul versante del rapporto fra ragione e dimensione pratica. Il criterio che essa offre per vagliare la norma giuridica non rinuncia a “sporcarsi le mani” per così dire con la difficoltà di addivenire a un’applicazione del diritto che risponda a giustizia. Mi sembra di poter leggere alla luce di tale considerazione il fatto che, come ho già ricordato, il principio di ragionevolezza nel nostro ordinamento giuridico attuale è esplicitamente riconnesso al principio di eguaglianza (sia formale che sostanziale) di fronte alla legge enunciato nell’art. 3 della nostra Costituzione, il quale probabilmente può considerarsi come la norma più importante dell’ordinamento giuridico italiano nel suo complesso.

Come ritiene Jellinek di poter saggiare la ragionevolezza dei motivi che deve orientare lo Stato in particolar modo nella posizione del proprio diritto? L’autore austriaco sottolinea a questo punto come il porre e difendere il diritto non siano due scopi fra i tanti che lo Stato possiede per sua propria natura, ai quali deve ottemperare ma che potrebbe non realizzare per conseguirne altri più importanti eventualmente con essi confliggenti. Porre e difendere il diritto sono invece scopi essenziali dello Stato, anzi, sono piuttosto due aspetti di un unico e medesimo scopo. Nelle parole di Jellinek:

“lo Stato è vincolato dai propri scopi dei quali fa parte anche quello di essere l’organo del popolo che pone il diritto e che protegge il diritto. Se non realizza questo scopo o se addirittura agisce contro di esso, con ciò lo Stato commette un attacco verso se stesso, cerca di distruggere le condizioni della sua propria esistenza[27] .

Dunque, se lo Stato non raggiunge questo suo scopo primario, consistente nella posizione del diritto e nella tutela del diritto posto, va contro la propria stessa natura e mina se stesso dalle proprie fondamenta, innesca il meccanismo più o meno rapido della propria distruzione. Di tale principio Jellinek sottolinea l’importanza non soltanto a livello del diritto interno, ma anche sul piano più ampio del diritto internazionale. A tale proposito, su questo più ampio piano, si coglie in quest’osservazione di Jellinek una luce di straordinaria attualità, che richiama alla mente fra l’altro la connessione fra tutela dei diritti umani fondamentali e mantenimento della pace, esplicitamente concretizzata in senso propositivo nel 1992 nel celebre documento An Agenda for Peace del Segretario generale delle Nazioni Unite Boutros-Ghali[28] . La connessione ivi posta fra mantenimento della pace e tutela dei diritti umani, due competenze delle Nazioni Unite che per tanti anni si sono sviluppate in maniera separata, ciascuna come settore a sé, sta a significare che la pace (e ciò può valere non soltanto per quella sociale all’interno di qualunque Stato, ma per la stessa pace internazionale) si alimenta, si rafforza, si diffonde proteggendo, rafforzando e diffondendo il diritto. Là dove i diritti sono rispettati, gli individui hanno motivi meno solidi di contestare l’esercizio del potere politico, il malcontento è meno radicale, le persone riescono a godere maggiormente della bellezza della propria esistenza, senza esser preda di rabbia né senso di ingiustizia, sentimenti i quali possono spingere a comportamenti inconsulti in grado di innescare pericolose reazioni a catena, che nei tempi più bui dilagano senza possibilità di contenimento, neppure ad opera delle forze pubbliche. Reciprocamente, è proprio la violazione dei diritti a costituire uno dei più importanti fattori di instabilità in quanto essa è fonte di astio, iniquità, senso di insoddisfazione e desiderio/bisogno di cambiamento. La storia stessa è testimone di questa stretta connessione fra pace sociale e rispetto del diritto e nonostante la lezione storica dalla quale si potrebbe apprendere, soltanto pochissimi anni ci separano da un documento come l’ Agenda for Peace come se anche il solo fissare per iscritto tale connessione fosse frutto di uno sforzo titanico. Alla luce di questa considerazione, dell’oblìo in cui l’esigenza del rispetto dei diritti sembra continuamente cadere, la riflessione di Jellinek mantiene pertanto integra tutta la sua attualità.

[...]


[1] Cfr. G. Jellinek, Allgemeine Staatslehre, I ed. O. Häring, Berlin, 1900. Di quest’opera di Jellinek sono state pubblicate una prima traduzione italiana di M. Petrozziello, La dottrina generale dello Stato, con introduzione e capitoli aggiuntivi di V.E. Orlando, Società Editrice Libraria, Milano, 1921, condotta sulla II edizione tedesca, O. Häring, Berlin, 1905; e una seconda traduzione ad opera dei medesimi curatori (condotta sulla base della terza edizione tedesca, postuma, del 1914) e apparsa per l’editore Giuffrè, Milano, 1949, con il titolo La dottrina generale del diritto dello Stato.

[2] In Italia vedasi per esempio G. Morelli, Nozioni di diritto internazionale, VII ed., Cedam, Padova, 1967, p. 11; B. Conforti, Diritto internazionale, VII ed., Editoriale Scientifica, Napoli, 2006, p. 8. Trattandosi di due manuali di diritto internazionale fra i più diffusi negli ultimi venti-trent’anni, è evidente come l’idea che per Jellinek il fondamento ultimo del diritto risiederebbe nella volontà sovrana dello Stato concepita come arbitrio sia altrettanto radicata fra gli studiosi italiani della materia. Ma forse la considerazione di cui gode il pensiero di Jellinek oltralpe non è così diversa. Fra gli studiosi del diritto internazionale di lingua tedesca può ricordarsi per esempio come il pensiero di Jellinek sia equivocato da H. Wehberg, “Pacta Sunt Servanda”, in American Journal of International Law, vol. 53, 1959, pp. 775-786, a p. 781. Più recentemente B. Simma, “The Contribution of Alfred Verdross to the Theory of International Law”, in European Journal of International Law, 1995, pp. 33-54, a p. 40 mostra una lettura assai frettolosa del breve saggio di Jellinek qui tradotto (infatti l’autore cita ivi, in nota 32, p. 45 di Die rechtliche Natur, corrispondente alle pp. 85-86 della presente traduzione, dando prova non soltanto di aver frainteso il senso del passo citato ma anche di aver mal letto le pagine precedenti, nelle quali Jellinek conduce la propria argomentazione contro la tesi della volontà intesa come arbitrio). Nella medesima e travisante linea interpretativa, in un passato ancor più prossimo al nostro tempo, S. Hobe, K. Nowrot, “Whither the Sovereign State?”, in German Yearbook of International Law, 2007, pp. 243–302, a p. 253. Maggior giustizia è resa al pensiero di Jellinek da J. Von Bernstorff, Der Glaube an das universale Recht: zur Völkerrechtstheorie Hans Kelsens und seiner Schüler, Nomos, Baden Baden, 2001, p. 23 ss., che può leggersi anche in traduzione inglese a cura di T. Dunlap, The Public International Law Theory of Hans Kelsen, Believing in Universal Law, Cambridge University Press, New York, 2010, p. 26 ss. Ma, a mio avviso, la pur limpida sintesi del volumetto di Jellinek sulla natura degli accordi fra Stati ivi contenuta è presentata senza riflettere a sufficienza sul fondamento etico del diritto e sulle sue conseguenze pratiche.

[3] Sulla vita di Jellinek vedansi alcuni dettagli biografici nel necrologio comparso in The American Journal of International Law, vol. 5, n. 3, July, 1911, pp. 716-18; in lingua italiana v. Enciclopedia Italiana, edita a cura dell’Istituto della Enciclopedia italiana fondata da Giovanni Treccani, vol. XVIII, GV-INDE, Rizzoli, Milano, 1933, voce “Jellinek, Georg”, p. 793; e più ampiamente in lingua tedesca A. Hollerbach, voce “Jellinek, Georg”, in Neue deutsche Biographie, Band 10., Dunker & Humblot, Berlin, 1974, pp. 391-392, digitalizzato e consultabile in rete al sito http://daten.digitale-sammlungen.de/0001/bsb00016327/images/ index.html?seite=407. Più recentemente vedansi ancora i contributi raccolti nella I parte di S.L. Paulson, M. Schulte (a cura di), Georg Jellinek. Beiträge zu Leben und Werk, Mohr Siebeck, Tübingen, 2000, pp. 3-101. Va ricordato che un elenco completo delle opere di Jellinek è comparso a cura del figlio Walter, poco dopo la scomparsa di Jellinek, in “Georg Jellineks Werke”, in Archiv des öffentlichen Rechts, 1911, vol. 27, pp. 606-619. Un lascito delle opere di Jellinek è attualmente custodito nel Bundesarchiv di Koblenz.

[4] Cfr. in particolare C. Schmitt, Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Duncker & Humblot, Berlin, 1974, tr. it. di E. Castrucci, a cura di F. Volpi, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum europaeum”, Adelphi, Milano, 1991, p. 145.

[5] V.E. Orlando, Avvertenza preliminare a G. Jellinek, La dottrina generale dello Stato, cit., pp. IX-XIV, a p. X.

[6] G. Jellinek, La dottrina generale dello Stato, cit., pp. 633-634.

[7] G.W.F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts. Naturrecht und Staatswissenschaft im Grundrisse, Berlin, 1821, ed. e tr. it. di V. Cicero, Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello Stato, Rusconi, Milano, 19982, in particolare la Parte terza dedicata alla Sittlichkeit (termine tradotto comunemente con “eticità”), pp. 293 ss. §§ 142 ss. Sui problemi di traduzione di questa parola v. infra, questa Prefazione, § 6.

[8] Capacità (quella di pensare a nuove ipotesi alle quali potrebbe estendersi la regola contenuta in una norma), la quale probabilmente, contrariamente a quanto crede l’uomo di strada, è requisito indispensabile per chi voglia dedicarsi al diritto.

[9] H. Kelsen, Reine Rechtslehre. Einleitung in die rechtswissenschaftliche Problematik, Franz Deuticke Verlag, Wien, 1934, tr. it. di R. Treves, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino, 1952, p. 96: “le norme giuridiche [...] non sono valide in forza del loro contenuto. Ogni qualsiasi contenuto può essere diritto: non vi è nessun comportamento umano che, come tale, in forza del suo contenuto, non possa diventare contenuto di una norma giuridica [...]. Il diritto vale soltanto come diritto positivo, cioè come diritto posto”.

[10] Tale connessione fra dimensione etica (Sitte) e figura del funzionario dello Stato è già messa in luce da Hegel in Lineamenti di filosofia del diritto, cit., p. 499 ss., in particolare i §§ 294 ss. In senso conforme vedasi anche la Prefazione dell’autore in H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., pp. 42-43; nonché M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, Mohr, Tübingen, 1922, tr. it. di AA. VV., ed. a cura di P. Rossi, Economia e società, Edizioni di Comunità, Milano, 1961, vol. II, p. 707 ss.

[11] M. Weber, Economia e società, cit., vol. II, p. 711: “[l]’onore del funzionario consiste nella capacità di eseguire coscienziosamente, sotto la responsabilità di chi glielo impartisce, un ordine che gli appare errato, quando l’autorità a lui preposta vi insiste nonostante le sue osservazioni, esattamente come se esso corrispondesse al suo proprio convincimento: senza questa disciplina etica nel senso più alto e senza questa abnegazione l’intero apparato andrebbe in rovina”.

[12] Vero è che, a differenza di Kelsen, Weber distingue una “razionalità formale” da una “razionalità materiale” quali opposti criteri che possono orientare l’agire dei funzionari statali: cfr. M. Weber, Economia e società, cit., vol. II, pp. 16-17.

[13] La recensione di J.C. Bluntschli, “Dr. Georg Jellinek, die rechtliche Natur der Staatenverträge. Wien, A. Hölder, 1880. 66 S.” compare nella Kritische Vierteljahresschrift für Gesetzgebung und Rechtswissenschaft, vol. 22, tomo III, 1880, pp. 579-581.

[14] Per J. von Bernstorff, “Georg Jellinek – Völkerrecht als modernes öffentliches Recht im fin de siècle ?”, in S.L. Paulson, M. Schulte (a cura di), Georg Jellinek. Beiträge zu Leben und Werk, cit., pp. 183-207, a p. 194, testo e nota 57, questo riconoscimento di cui parla Jellinek sembra interpretato in senso meno radicale di come secondo me dovrebbe intendersi. Da questi autori il riconoscimento di cui parla Jellinek è inteso come uno “strumento” di cui lo Stato può servirsi (o eventualmente, evita di servirsi), al fine di entrare in relazione con altri soggetti a lui pari o “farsi carico” del diritto oggettivo così creato. A prescindere da quella che sarà la posizione di Jellinek su questo punto, come approfondita successivamente allo scritto qui in oggetto (gli autori legano infatti la loro interpretazione piuttosto al Sistema dei diritti pubblici soggettivi, I ed. 1892, che non a La natura giuridica degli accordi fra Stati) mi sembra che qui invece Jellinek intenda il riconoscimento in senso hegeliano, vale a dire come fondamento della relazione giuridica nella dimensione della Sittilichkeit.

[15] È forse per considerazioni di questo tipo che il pensiero Jellinek è considerato un po’ datato, oppure la sua è una vera e propria lungimiranza rispetto a quelle che sarebbero state quasi un secolo dopo le norme di jus cogens a venire, in particolare gli artt. 53 e 64 della ricordata Convenzione di Vienna?

[16] In questo ritengo superata la visione di Jellinek soprattutto alla luce dei lavori di codificazione ad opera della Commissione del diritto internazionale delle Nazioni Unite in materia di responsabilità internazionale degli Stati per fatti illeciti (v. al sito www.un.org la relativa, ricchissima documentazione predisposta dai vari relatori che si sono avvicendati in quasi mezzo secolo di lavori per la redazione di un progetto di convenzione ancora non adottato dagli Stati). Ma questo superamento mi sembra già attestato nell’opinione individuale di Dionisio Anzilotti in occasione della pronuncia sull’affare dei regimi doganali fra Germania e Austria, allorché egli sottolineava che indipendenza dello Stato significa non riconoscere alcuna autorità al di sopra di sé se non quella del diritto internazionale (cfr. Permanent Court of International Justice, Series A./B., Fascicule No. 41, Customs Régime Between Germany and Austria, Protocol of March 19th, 1931, del 5 settembre 1931, pp. 37-54; l’opinione individuale di Anzilotti può leggersi ivi, pp. 55-73, p. 57). Sottolineo questo punto per mettere in luce come, in caso di violazione del diritto da parte di uno Stato, la facoltà dello Stato leso di ricorrere a meccanismi di autotutela sia prevista dal diritto internazionale e da questo regolamentata; pertanto mi sembra che essa costituisca una via pienamente giuridica (e non fattuale) di attuazione/esecuzione del diritto.

[17] Cfr. per esempio G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., pp. 555-556, §§ 333-334. A mio avviso in qualche modo su questo punto Jellinek porta la filosofia hegeliana alle estreme conseguenze. Mi pare che Jellinek con la sua riflessione mostri come lo stadio dello Stato, il quale per Hegel rappresentava il compimento in senso storico-politico dello spirito, se considerato dalla sola prospettiva del lato “interno”, e cioè del diritto nazionale, soffra di incompletezza e quindi finisca sotto questo profilo per configurarsi come momento soggettivo, lasciando forse presagire come il movimento storico dello spirito evolverà verso il suo toglimento (Aufhebung), cioè verso il superamento del lato soggettivo e il consolidamento di un momento obiettivo superiore. Forse all’inizio del III millennio può dirsi che tale “momento obiettivo” è rappresentato dalla comunità internazionale? – realtà, questa, che all’epoca di Hegel era ben lungi dal presentare i caratteri di complessità con cui hanno a che fare gli studiosi del diritto internazionale contemporaneo. Senza poter qui approfondire la questione se per Hegel lo Stato, per ciò che di esso vi è ancora di soggettivo, sarebbe un momento destinato a esser tolto, è a mio avviso con grande acume che Jellinek più volte pone l’accento, nel suo piccolo testo, sull’esigenza di considerare il diritto internazionale come un “momento obiettivo”.

[18] Almeno nel senso di “oggettivamente esistente” e dunque non “produzione soggettiva dello Stato”, ma senza porre il problema di un’avvenuta Aufhebung della compagine statale così come pensata da Hegel.

[19] Giacché, come già accennato, una tale visione soltanto formale porta a considerare come pienamente “giuridiche” norme quali le leggi razziali e tutte quelle norme istitutive di patente ingiustizia legalizzata soltanto in quanto “posta” dagli organi detentori del potere legislativo.

[20] Approccio sostanzialista sul quale pure, peraltro, va ricordato che da qualche decennio batte l’accento un filone della dottrina costituzionalistica italiana, quella che per esempio risale al pensiero di Costantino Mortati e arriva ad altri studiosi contemporanei, per esempio Gianni Ferrara e Fulco Lanchester.

[21] Vedansi a tal proposito l’evoluzione tracciata e le considerazioni riportate in P. Biscaretti di Ruffia, Introduzione al diritto costituzionale comparato. Le “forme di Stato” e le “forme di governo”. Le costituzioni moderne, Giuffrè, Milano 1988.

[22] Sulle principali garanzie predisposte dal diritto internazionale in materia di diritti umani vedasi in particolare A. Marchesi, Diritti umani e Nazioni Unite. Diritti, obblighi e garanzie, Franco Angeli, Milano 2007, di cui è apparsa anche una più recente edizione dal titolo modificato in La protezione internazionale dei diritti umani. Nazioni Unite e organizzazioni regionali, Franco Angeli, Milano, 2011.

[23] Sia mediante l’adozione della cd. Carta di Nizza che mediante l’adesione dell’Unione europea alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950: cfr. l’art. 6 del Trattato sull’Unione europea come modificato dal Trattato di Lisbona. Su tale norma vedasi in maniera succinta ma efficace U. Draetta, Elementi di diritto dell’Unione Europea. Parte istituzionale. Ordinamento e struttura dell’Unione europea, V ed., Giuffrè, Milano, 2009, in particolare p. 252 ss.

[24] Come noto, nel nostro Paese fra gli altri svolge tale funzione il principio di ragionevolezza (desunto in sostanza dell’art. 3 della nostra Costituzione) così come elaborato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale. A tale riguardo vedansi per tutti i commenti all’art. 3.1 Cost., di A. Celotto, e all’art. 3.2 Cost., di A. Giorgis in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, UTET, Torino, 2006, vol. I, Artt. 1-54, rispettivamente pp. 65-87 e 88-113, nonché i riferimenti di dottrina e giurisprudenza ivi riportati.

[25] Cfr. infra, p. 80 (corsivi miei).

[26] Cfr. infra, p. 80 (corsivo nel testo).

[27] Cfr. infra, p. 80 (corsivi miei).

[28] Cfr. An Agenda for Peace. Preventive diplomacy, peacemaking and peace-keeping, UN Doc. A/47/277- S24111, del 17 giugno 1992, pubblicato al sito http://www.un.org/Docs/SG/agpeace.html. L’idea che il mantenimento della pace sia collegato al rispetto del diritto non è una novità del Segretario Generale. Già nel 1941 il presidente americano Roosevelt, con il discorso sulle “quattro libertà” tenuto dinanzi al Congresso con lo scopo di giustificare la partecipazione degli Stati Uniti nel secondo conflitto mondiale, aveva “posto un collegamento, ideale e politico, fra protezione dei diritti umani e mantenimento della pace internazionale” (così A. Marchesi, Diritti umani e Nazioni unite, cit., p. 11). Lo stesso Kelsen, facendo tesoro dell’esperienza della Società delle Nazioni, quando ancora il secondo conflitto mondiale era in corso, racchiudeva un progetto quanto mai ambizioso, consegnandolo alle pagine acute e al tempo stesso visionarie di Peace through Law, University of North Carolina Press, 1944, tr. it., di L. Ciaurro, La pace attraverso il diritto, Giappichelli, Torino, 1990. In questo scritto Kelsen cercava di mettere in luce le debolezze intrinseche del diritto internazionale e proporvi rimedi adeguati, facendo proprio leva sul dato di fatto storico, questo, che in effetti una comunità nella quale il diritto è rispettato ha esistenza più pacifica e duratura di una nella quale invece il diritto è calpestato. Nonostante questi precedenti eccellenti, intendo sottolineare come nell’ Agenda for Peace per la prima volta si sia tentato di tradurre in concreto, pensando a una serie di misure specifiche alle quali fare ricorso, il nesso fra mantenimento della pace e tutela di una categoria particolare di diritti la cui protezione è in grado di condizionare in maniera capillare il mantenimento della pace, vale a dire i diritti umani fondamentali.

Excerpt out of 121 pages

Details

Title
La natura giuridica degli accordi fra Stati
Subtitle
Contributo all'edificio giuridico del diritto internazionale
Course
Völkerrecht, Rechtsphilosophie
Authors
Year
2012
Pages
121
Catalog Number
V202266
ISBN (eBook)
9783656297567
ISBN (Book)
9783656297819
File size
842 KB
Language
Italian
Notes
Autor: Georg Jellinek, original Titel: "Die rechtliche Natur der Staatenverträge. Beitrag zur juristischen Construction des Völkerrechts" 1880 Wien. Italienische Fassung und Vorwort von Giuliana Scotto
Keywords
Voelkerrecht, Rechtphilosophie
Quote paper
Georg Jellinek (Author)Giuliana Scotto (Hrsg.) (Author), 2012, La natura giuridica degli accordi fra Stati, Munich, GRIN Verlag, https://www.grin.com/document/202266

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