Teoria dei Sonemi

Principi, estetica, modalità e tecniche di base


Scientific Study, 2009

175 Pages, Grade: Keine


Excerpt


Inhalt

Premessa

Introduzione

PARTE PRIMA

Capitolo I L'elemento neutro nell'arte musicale

Capitolo II L'Integralismo musicale di Hanslick

Capitolo III Principi di estetica fenomenologica: Alfred Schütz

Capitolo IV L'approccio ermeneutico di Pareyson

Capitolo V Sinossi concettuale

PARTE SECONDA

Capitolo VI Esperienze nell'assoluto

Capitolo VIIAstrattismo e arte

Capitolo VIIILinguaggi integrali

Capitolo IX Linguaggi complessi

Capitolo X Linguaggi simbolici

Capitolo XI Linguaggi astratti

Capitolo XII Linguaggi assoluti

Capitolo XIII Sonemi

PARTE TERZA

Capitolo XIV L'originale musicale

PARTE QUARTA

Capitolo XV Tecniche CMAC: OpenMusic e MusicXII

Bibliografia

La risposta alla domanda “ma, allora, a cosa serve la musica?” non può essere che “se è arte, assolutamente a nulla”

PREMESSA

Oggetto di studio della dissertazione è l'analisi e la definizione di una originale metodologia compositiva, denominata teoria dei Sonemi, nella quale vengono introdotti concetti e tecniche mutuati dall'integralismo di Hanslick nell'ottica dell'ermeneutica di Pareyson e della scuola fenomenologica di Husserl, in generale, e di Alfred Schütz in particolare. L'evoluzione del linguaggio musicale, nell'indipendenza dal sistema tonale, pur nella conformità e coerenza storica, porta alla definizione di nuovi linguaggi espressivi fortemente correlati al background culturale soggettivo, sulla base di un comune codice semantico, solidamente strutturato, introducendo il concetto di originale musicale (opera unica) da sequenze generative primarie (sonemi).

Vengono quindi esaminati il rapporto tra arti e arte musicale nella sua valenza simbolica, le origini storiche, il processo evolutivo, le correlazioni contestuali, le tecniche paradigmatiche di base e i criteri di generazione strutturale con alcuni esempi operativi e la descrizione dello strumento informatico, in logica open-source con funzioni CMAC (Composizione Musicale Assistita dal Computer), ad essa finalizzato.

INTRODUZIONE

Sappiamo bene, pur non essendo, con molta probabilità, architetti, che sarebbe perfettamente inutile iniziare la progettazione di una qualsiasi costruzione senza conoscerne il luogo di edificazione e la geologia, la destinazione, le finalità, l’uso, l’evoluzione. Tutte le parti di un edificio sono ideate e realizzate con la massima attenzione verso le persone che andranno ad abitarlo e l’uso che esse dovranno farne. Così, anche in questa sede, non è possibile procedere nella lettura del testo se non conoscendo i presupposti teorici che ne sono alla base e dai quali derivano tutti gli strumenti necessari ad un corretto e scientifico approccio analitico.

Ed è proprio questo lo spirito che anima la scrittura della dissertazione: conferire dignità scientifica, metodologia e tecnica ad una nuova forma di composizione musicale che utilizza, come materiale originario, strutture analitico-generative definitesonemi. Il Sonema è non solo elemento portante, espressione di nuovi linguaggi, ed esso stesso linguaggio, ma anche, e soprattutto, metodo, forma di pensiero, elaborato razionale, strumento semantico e relazionale di analisi e generazione strutturale. Nella definizione che tenteremo di dare verrà fornita una chiave di lettura, certamente non esaustiva, ma necessaria ad un corretto approccio al termine.

In particolare, analizzeremo preliminarmente le funzioni semantiche del nuovo linguaggio per passare, in seguito, alle funzioni legate alla composizione. Nel primo capitolo esamineremo la natura del contesto nel quale si svolge il processo di comunicazione: alla base della comunicazione musicale, e delle varianti connotative ermeneutiche che da essa scaturiscono, esiste la “musica” come “forma simbolica”, nella certezza che non esiste “simbolo” che non debba essere, in qualche modo, “interpretato” per giungere alla soglia della comprensione. Il materiale originario è costituito da un elemento neutro integrato da elementi poietici, estesici e soggettivi.

Nel secondo capitolo, vediamo come il materiale di base costituisca il nucleo originario integrale in grado di generare processi significativi auto-referenziali: non occorre utilizzare strumenti linguistici esterni per cogliere il senso e i contenuti di un messaggio di tipo musicale poiché esso contiene già, nella sua struttura interna, un proprio lessico e una specifica grammatica dotati di significato autonomo. Qualsiasi riferimento semantico è indirizzato unicamente ed esclusivamente a processi integrali di tipo musicale. La musica “è”, non deve diventare alcunché d’altro da essa.

I concetti di natura fenomenologica esposti nel terzo capitolo ci introducono a tre concetti primari relativi all’esperienza acustica: l’oggetto culturale, ilcontesto significativoe lastratificazione politeticadegli eventi.

L’evento sonoro si compenetra nella sfera culturale di qualsiasi individuo solo in presenza degli appositi recettori: ascoltare musica non può ridursi a semplice passivo ascolto fisico ma determina un intervento attivo, di tipo culturale, sul flusso sonoro. È evidente che tanto più semplici sono i comuni ambienti culturali (compositore/ ascoltatore) tanto più semplice e lineare sarà la tipologia di ascolto effettuata.

Nel quarto capitolo si esaminano i processi ermeneutici correlati sia alla composizione che all’ascolto: ciò che determina il carattere di una composizione è soprattutto lo stile che coincide con la spiritualità dell’artista e con il senso reale dell’opera. Esistono dunque molteplici parallele interpretazioni, incluso l’atto formativo originario, attraverso il quale l’idea musicale si esplica e si realizza compiutamente.

Nel quinto capitolo viene esposta una sintesi dei concetti presentati nei capitoli precedenti, utile quale introduzione alle sezioni successive.

Dal sesto al tredicesimo capitolo viene analizzato il percorso storico-linguistico dei sonemi mediante riferimenti musicali, artistici e letterari. La musica come linguaggio ha prodotto numerosi stili e modalità di “formatività” (vedi Pareyson, IV cap.) esaminati come “generi” con specifiche caratteristiche tecniche ed estetiche. Il sonema intende essere anello della catena evolutiva, non elemento di rottura: conformità, coerenza e congruità strutturale sono parametri costanti nel processo compositivo che dal passato genera la propria continuità ed identità storico-artistica.

Nel capitolo XIV, forse il più importante sia per il carattere conclusivo che per i concetti espressi, vengono definite le modalità di produzione, esecuzione, esposizione e fruizione delle opere basate sulla Teoria, introducendo i concetti di flusso o “raw”, “generazione da raw primario”, di “originale musicale”, “derivato” e “opera unica”.

Esaminato il processo storico - estesico, vengono illustrati due dei possibili procedimenti tecnici (cap. XV) mediante l’esame essenziale dei linguaggi OpenMusic (IRCAM) e MusicXII (EVS), due CMAC (Composizione Musicale Assistita dal Computer) in OpenSource che permettono di produrre basi strutturalmente complesse mediante script di controllo di tipo sequenziale su piattaforme informatiche.

PARTE PRIMA - CAPITOLO I L’ ELEMENTO NEUTRO NELL ’ ARTE MUSICALE

In questo capitolo viene esaminato il processo comunicativo di tipo musicale con particolare attenzione agli elementi costitutivi primari, alla loro interazione, alla necessità di possedere un comune codice semantico che porti all’individuazione dell’elemento neutro quale chiave originaria di lettura e di comprensione dell’essenza simbolica del messaggio.

L’esperienza dell’ascolto può essere paragonata a quella della visione? Davanti ad un olio di Monet il meccanismo di percezione è simile all’ascolto di una sinfonia di Beethoven? Le forme e i colori del quadro di Monet possono essere codificati e resi con un concetto di tipo simbolico? Della sinfonia di Beethoven viene percepita l’esecuzione o la partitura? Il processo della comunicazione, pur così diverso nelle due forme d’arte, segue meccanismi comuni nell’individuazione di elementi caratteristici, ed unici, tipici dell’opera che si sta esaminando. Può esserci particolarmente utile, nell’individuazione dei topoi del linguaggio musicale, l'esame dei principi alla base di alcuni studi semiologici di Jean Molino ed Umberto Eco, descritti daJean-Jacques Nattiezin “Musicologia Generale e Semiologia” (Manuali EDT, Torino,1989), per una analisi musicale integrale di tipo estesico con particolare riguardo alla ricerca del virtuale “livello neutro”.

Ci interessa, in questo capitolo, portare l'attenzione sulla valenza simbolica della comunicazione musicale che porta ad una fitta rete di interpretanti in un contesto di relazioni complesse nelle quali un messaggio, che definiremo "elemento neutro", viene trasferito dal compositore <> all'esecutore <> all'ascoltatore non sequenzialmente ma in modalità fortemente interattiva con generazione di nuovi significati in contesti mutevoli, vuoi per dimensione temporale che per collocazione spaziale, ma soprattutto per differenti gradi di sensibilità culturale nel processo dialettico tra compositore e ascoltatore, oggetto del quarto capitolo.

In questa prima fase è importante comprendere i termini della questione, ben descritti da J.J. Nattiez (ibid.) e del quale si riporta quasi integralmente il testo per la chiarezza e completezza dell’analisi: [...]

“Il processo di comunicazione richiede che all’emissione di un messaggio ne segua la comprensione: e ciò può avvenire solo in presenza di un codice comune. Nulla può meglio chiarire il concetto di ricezione di un messaggio che una frase del celebre Pirandello: «Il guaio è che voi, caro, non saprete mai, né io vi potrò mai comunicare come si traduca in me quello che voi mi dite. Non avete parlato turco, no. Abbiamo usato, io e voi, la stessa lingua, le stesse parole. Ma che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per sé, sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele, e io nell’accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo creduto d’intenderci; non ci siamo intesi affatto»”

Jean Molino, professore ordinario di semiologia presso l’Università della Sorbona a Parigi, già insegnante di Nattiez, descrive una modalità di tripartizione semiologica (1975) che deriva da tre enunciati logici:

a) una frase, grammaticalmente corretta, può non avere alcun senso;
b) i significati possono essere molteplici in relazione ai codici utilizzati da emittente e ricevente;
c) pur non conoscendo i codici ermeneutici che interagiscono in una frase possiamo sempre analizzarne i componenti in una descrizione formale.

In tal modo si delineeranno tre dimensioni del fenomeno simbolico:

a) ladimensione poietica: anche se priva di qualsiasi significato intenzionale, la forma simbolica è il risultato di un processo creatore che è possibile descrivere o ricostruire;
b) ladimensione estesica: di fronte a una forma simbolica, i ricettori vi assegnano uno o più significati. Il termine “ricettore” è, d’altra parte, improprio, perchè è evidente che non si riceve il significato del messaggio ma lo si costruisce attraverso un processo attivo di percezione;
c) latraccia: la forma simbolica si manifesta fisicamente e materialmente sotto l’aspetto di una traccia accessibile ai sensi. Una traccia, poiché il processo poietico non è immediatamente leggibile in essa e nello stesso tempo quello estesico, pur essendo in parte da essa determinato, deve molto al vissuto del ricettore: Molino propone di chiamarlo “livello neutro” o “materiale”. Del livello neutro si può fornire una descrizione oggettiva, cioè un’analisi delle sue proprietà e delle sue configurazioni immanenti e ricorrenti: la definiamo, appunto, analisi del livello neutro.

Motiviamo, prima di proseguire, la terminologia proposta da Molino:

a) la differenza tra poietico ed estesico è già reperibile nella lezione inaugurale tenuta al Collège de France (1945) da Paul Valéry, nel corso della quale, pur non usando il termine “poietico”, egli si proponeva di definire la specificità della poetica;
b) la parola “estesico”, presente nello stesso testo, è un neologismo di Valéry, che la preferisce a estetico per evitare possibili confusioni, e per inequivocabili ragioni etimologiche (...). La fruizione, la contemplazione o la lettura dell’opera, l’interpretazione musicale come pure gli approcci scientifici e analitici alla musica si situano defacto sul versante estesico;
c) il “poietico”. Secondo Gilson (1963), da cui abbiamo preso questo termine, ogni opera dotata di empiricità e di realtà è il prodotto di un fare, di un lavoro. Per poietico egli intende dunque la determinazione delle condizioni di possibilità e di creazione del lavoro dell’artista (o di un produttore, di un artigiano) grazie al quale «alla fine esiste qualcosa che non sarebbe esistito senza di lui». Gilson divide la poietica in tre momenti:

l. Riflessione su ciò che occorre fare per produrre l’oggetto.
2. Operazione sulla materia esteriore.
3. Produzione dell’opera.”

Piero T. de Berardinis - Teoria dei Sonemi

Lo studio del processo poietico, e della sua influenza sulla percezione, esula dai nostri intenti. Infatti: [...]

“In questo testo non esamineremo gli elementi poietici, soffermandoci piuttosto sul “livello neutro” derivante da un’analisi di tipo estesico. Proporremo dell’analisi del livello neutro questa prima definizione approssimativa: è un livello di analisi in cui non si decide a priori se i risultati ottenuti da un procedimento esplicito sono pertinenti dal punto di vista estesico o poietico. Gli strumenti utilizzati per la delimitazione e la denominazione dei fenomeni sono sfruttati sistematicamente fino alle loro ultime conseguenze, e vengono sostituiti solo nel momento in cui nuove ipotesi o nuove difficoltà inducono a proporne di nuovi. “Neutro” significa anche che le dimensioni poietiche ed estetiche dell’oggetto sono state neutralizzate, e che si va fino in fondo a una procedura data indipendentemente dai risultati ottenuti.

Tra processo poietico e processo estesico esiste una traccia materiale che non è portatrice in se stessa di significati immediatamente leggibili, ma senza la quale il(i) significato(i) non potrebbe(ro) esistere, una traccia dunque analizzabile. La semiologia non è la scienza della comunicazione. Come la concepiamo noi, è lo studio della specificità del funzionamento delle forme simboliche e dei fenomeni di rinvio cui esse danno luogo.

Il programma semiologico che adottiamo ha dunque tre oggetti:

- i processi poietici;
- i processi estesici;
- l’opera nella sua realtà materiale (produzione sonora, partitura, testo stampato, ecc.), vale a dire la traccia fisica che è frutto del processo poietico.

A questi tre oggetti, che Molino chiama rispettivamente livello poietico, estesico e neutro, corrispondono tre famiglie d’analisi che cercano di circoscrivere la specificità del simbolico:

- l’analisi poietica;
- l’analisi estesica;
- l’analisi delle configurazioni immanenti dell’opera (della traccia), cioè l’analisi del livello neutro.

Due osservazioni:

a. I fenomeni poietici ed estesici sono processi; le configurazioni immanenti si organizzano in strutture o “quasi-strutture “. Ne deriva una problematica disparità metodologica ed epistemologica tra analisi poietica ed estesica da un lato e analisi del livello neutro dall’altro;
b. ci sembra essenziale distinguere il livello dell’oggetto da quello dell’analisi con il fine precipuo di non confondere la traccia in se stessa e l’analisi della traccia: la prima, finché non diviene oggetto di un’analisi, è una realtà fisica priva di forma. Per lo stesso motivo parliamo del poietico e dell’estesico (al maschile) per indicare i fatti poietici ed estesici studiati, della poietica e dell’estesica (al femminile) per indicare le analisi.”

[...]

Ma è qui che interviene necessariamente l’analisi del processo di trasferimento delle informazioni e della non linearità del feedback che ne consegue:

“La semiologia non è la scienza della comunicazione. La radicalità di tale affermazione potrà forse infastidire: questo aspetto della teoria semiologica cui facciamo riferimento è uno di quelli che hanno incontrato maggior resistenza, senza dubbio a causa della forza di alcuni pregiudizi radicati nella storia della semiologia. Converrà dunque soffermarvisi un attimo. Si potrebbe pensare che Molino recuperi lo schema classico della comunicazione limitandosi a mutarne la terminologia:

Emittente > Messaggio > Ricettore

In realtà bisogna sostituire a questo schema il seguente, che ha senso solamente, come vedremo poi, se collegato alla teoria dell’interpretante:

Abbildung in dieser Leseprobe nicht enthalten

In questo schema la freccia collocata a destra (tutta la differenza risiede in quel dettaglio) è stata invertita. Secondo la teoria semiologica di Molino, infatti:

I. Una forma simbolica (sia essa un poema, un film o una sinfonia) non è l’intermediario di un processo di “comunicazione” destinato a trasmettere a un uditorio i significati intenzionati da un autore.
II. Essa è piuttosto il risultato di un complesso processo di costruzione (il processo poietico) riguardante sia la forma sia il contenuto dell’opera.
III. Nello stesso tempo è anche il punto di partenza di un processo complesso di ricezione (il processo estesico) che ricostruisce il messaggio.

I processi poietico ed estesico non necessariamente corrispondono; come sostiene Molino «il poietico non ha necessariamente vocazione alla comunicazione»: può non lasciare tracce nella forma simbolica stessa e, se ne lascia, la traccia in questione può non essere percepita. L’esempio più evidente, in campo musicale, è costituito dalla serie schoenberghiana, per non citare le strutture di Webern o di Boulez. Gli esperimenti di Francès (1958) hanno tuttavia dimostrato con grande chiarezza che elementi poietici privi di ambiguità, come il soggetto e il controsoggetto di una fuga, non vengono necessariamente riconosciuti dall’ascoltatore.

La serie ha una funzione organizzativa e non vi è alcuna garanzia che essa sfoci in configurazioni percepibili come tali dal ricettore; viceversa, egli ne proietta sull’opera altre che non dipendono sempre dal processo poietico, né corrispondono necessariamente a ciò che Deliège chiama, in modo assai appropriato, «intenzioni realizzate» (ad esempio, il materiale tematico su cui l’opera si basa).

La teoria di Molino non è una negazione della comunicazione, ma una teoria del funzionamento simbolico secondo la quale la comunicazione non è che un caso particolare all’interno dei diversi modi di scambio, una delle conseguenze possibili dei processi di simbolizzazione. Musicologi e musicisti spesso non la pensano così: per essi, deve esserci comunicazione tra compositore e pubblico.“

È importante sottolineare la valenza comunicativa dei processi in esame indipendentemente dal metodo (descrittivo o analitico) utilizzato. L’essenza strutturale, se presente, permane anche in assenza di ricezione. L’analisi evidenzia, scomponendone gli elementi, caratteri, situazioni e ambienti culturali che sono in realtà colti nel loro insieme, come un tutto. La nostra attenzione deve focalizzarsi sul processo estesico che determinerà l’emersione del carattere simbolico del materiale esaminato portandoci all’individuazione dell’elemento neutro (naturalmente solo in presenza di condivisione dei codici comunicativi).

[...]

“Noi temiamo che queste posizioni, più di ordine normativo che empirico, non corrispondano alla realtà dei fatti, dato che non considerano quella che ci appare come la caratteristica essenziale dei fatti umani affrontati da un punto di vista semiologico: il loro aspetto dinamico e costruttivo.

Questo stesso mito della comunicazione lo ritroviamo nei semiologi di maggior rilievo. Richiamiamo alla mente il celebre schema diJakobson(1963, p. 353):

Abbildung in dieser Leseprobe nicht enthalten

Il commento dell’autore era il seguente: «L’emittente invia un messaggio al destinatario. Per essere operante, il messaggio richiede in primo luogo il riferimento a un contesto (il “referente”, secondo un’altra terminologia abbastanza ambigua) afferrabile dal destinatario verbale o suscettibile di verbalizzazione; in secondo luogo il messaggio esige un codice interamente o almeno parzialmente comune a emittente e destinatario (o, in altri termini, al codificatore e al decodificatore del messaggio); infine necessita di un contatto, un canale fisico e una connessione psicologica fra il mittente e il destinatario, che consenta loro di stabilire e di mantenere la comunicazione» (Jakobson, 1963, pp. 213-4). Le due parole chiave, qui, sono “codice” e “comunicazione”, perché ciò che consente l’esistenza di quest’ultima è appunto il codice comune ai due, mittente e destinatario (la differenza di codice viene ammessa solo come eccezione). Per Jakobson tale schema è essenziale dal punto di vista epistemologico perché per mezzo di esso viene giustificato l’approccio strutturalista al linguaggio e alla poesia: se non sussistono discrepanze tra emittente e ricettore l’analisi semiologica dei “sistemi di comunicazione” può essere ricondotta allo studio delle strutture immanenti della lingua e dei testi.

Umberto Ecoha delineato una teoria semiologica nella quale i codici non sono, e non potranno mai essere, comuni: nonostante ciò, sarà necessario partire, in ogni caso, da basi percettive analoghe pena l’assoluta inintelligibilità di qualsiasi forma di trasferimento di informazioni, procedendo linearmente e soggettivamente dalla “denotazione” alla “connotazione” generando infiniti codici e sub-codici di lettura:

““Struttura”, “codice” e “comunicazione” rappresentano le parole chiave anche della semiologia di Umberto Eco: [...] ci baseremo sulla Struttura assente, con riferimenti aTheory of Semiotics. La semiologia generale di Eco ha un carattere ecumenico. L’autore non polemizza con alcuno, se non con studiosi fuori combattimento (Morris) o fuori portata (Lévi-Strauss) e recupera la quasi totalità dei concetti presenti nelle differenti teorie semiologiche: langue, parole, codice, messaggio, denotazione, connotazione, interpretante, struttura, isotopia, ecc. Il progetto essenziale è definire i limiti della semiologia al fine di costituirla in disciplina autonoma e separata, proponendo nello stesso tempo una teoria unificata delle diverse correnti basata sulla nozione di codice. Quali sono i punti fondamentali di questa teoria?

1. Essa intende proporre una sua “logica della cultura” (1976, p. 3): <<Facciamo della semiotica una teoria generale della cultura e, in ultima analisi, un sostituto dell’antropologia culturale>> (1972, p. 28). Gli elementi della cultura sono, per Eco, unità semantiche incluse in una rete di comunicazione (ibid., p. 24).
2. Parlare di logica equivale a parlare di struttura. La cultura si presenta, in apparenza, come un groviglio eterogeneo, ma la specificità della nozione di struttura consiste nel permettere di apportarvi un poco d’ordine: <<Una struttura è un modello costruito secondo certe operazioni semplificatrici che mi permettono di uniformare fenomeni diversi da un solo punto di vista>> (ibid., p. 53).
3. Le strutture hanno carattere soggiacente e potranno essere descritte grazie all’identificazione di codici. Un lavoro approfondito sull’opera di Eco dovrebbe comprendere anche l’inventario di tutte le definizioni della parola “codice” e di tutte le spiegazioni che egli ne dà per verificarne la non contraddizione. Nel presente contesto ci sembra sufficiente ricordare due di queste: <<Una delle ipotesi della semiotica è che sotto ogni processo di comunicazione esistano regole e codici che riposano su una certa convenzione culturale >> (ibid., p. 13). << Il codice istituisce una corrispondenza tra un significante e un significato>> (ibid., p. 41).

In un paragrafo molto chiaro, Eco riassume il nucleo dei propri intendimenti: <<La semiotica studia tutti i processi culturali in quanto processi di comunicazione; essa è volta a dimostrare come, sotto i processi culturali, esistano dei sistemi; la dialettica sistema-processo porta ad affermare la dialettica codice-messaggio>> (ibid., pp. 30-l). Il problema risiede evidentemente nel sapere in cosa consistano i codici soggiacenti.

Il primo elemento di novità di Eco in rapporto a talune posizioni contemplate dallo strutturalismo sta nel fatto che egli si allontana dal modello di Jakobson, insistendo sul concetto che <<i codici sono molteplici e non sono comuni a emittente e destinatario>> (ibid., p. 54; cfr. anche pp. 119 e 166). È questa stessa situazione, secondo l’autore, a caratterizzare l’universo del senso in opposizione all’universo del segnale di cui tratta il modello informazionale: in ciò, egli ha perfettamente ragione. Eco, riconoscendo la “discrepanza” fondamentale esistente tra il poietico e l’estesico, è sulla strada giusta. Ma egli procede ancora oltre lungo questo fruttuoso cammino: non solo i codici di emittente e ricettore possono non coincidere, ma possono anche esistere in uno stesso individuo, o all’interno di un gruppo, codici e sotto-codici: <<La molteplicità dei sotto-codici che attraversano una cultura ci mostra che il medesimo messaggio può essere decodificato da diversi punti di vista e ricorrendo a sistemi convenzionali differenti. In questo modo è possibile che si percepisca in un significante la denotazione fondamentale che l’emittente vi ha attribuito, ma anche che si assegnino a esso altre connotazioni, nel momento in cui il ricettore segue un percorso che non esisteva nel codice di riferimento dell’emittente>> (ibid., p. 114).

Nella misura in cui Eco si rende perfettamente conto che i codici di emittente e destinatario possono essere completamente esclusivi l’uno dell’altro, non è lontano dal porre l’accento sul livello neutro: <<Il messaggio si presenta come una forma vuota alla quale si possono attribuire diversi sensi possibili>> (ibid., p. 117), forma <<vuota di senso, ma che presenta, al contrario, una organizzazione precisa dal punto di vista della logica dei significanti>> (ibid., p. 118).

Eco si spinge ancor più lontano nella direzione di una demoltiplicazione dei significati, dato che riconosce come fondamentale l’esistenza degli interpretanti di Peirce: <<La fertilità della nozione di interpretante, nella sua ricchezza e nella sua imprecisione, è data dal fatto che essa ci mostra come la comunicazione [ ... ] circoscriva in modo asintotico, senza mai arrivare a toccarle, le unità culturali che sono continuamente poste come suo oggetto. Questa circolarità ininterrotta, pur apparendo sconfortante, è la condizione normale della comunicazione: invece di negarla attraverso la metafisica del referente, occorre analizzarla come tale>> (ibid., pp. 6- 7). Eco ritrova qui ciò che abbiamo definito sopra “oggetto virtuale”.

Fin qui tutto procede bene: ci si potrebbe anche meravigliare del fatto che abbiamo intrapreso una trattazione critica della sua teoria. Le difficoltà sorgono invece nel momento in cui occorre determinare la natura dei famosi codici: Eco ha infatti continuato per molto tempo a considerarli come strutture, come <<una convenzione che stabilisce le modalità di correlazione>> (1978, p. 275).

Per ben comprendere il pensiero dell’autore, occorre compiere ora una piccola deviazione attraverso i concetti di denotazione e di connotazione, o più precisamente attraverso i codici di denotazione e di connotazione.

Riprendendo una distinzione classica in linguistica, Eco attribuisce alla denotazione un senso forte, considerando le connotazioni secondarie e facoltative: egli le considera come sotto-codici (ibid., p. 55). Vale forse la pena di esaminare da vicino la sua definizione di denotazione: <<Per denotazione si intende il riferimento immediato che un termine suscita nel destinatario del messaggio; poiché non vogliamo ricorrere a soluzioni mentaliste, la denotazione dovrà porsi come riferimento immediato che il codice assegna al termine in una cultura data.>> L’unica soluzione possibile consiste quindi nel dire che il lessema isolato denota una posizione nel sistema semantico. Il lessema /Baum/ denota in tedesco quello spazio, quella “valenza” semantica grazie alla quale /Baum [albero]/ è ciò che si oppone a /Holz [legno]/ e a /Wald [boscol]/ (ibid., p. 87). Nel riprendere il celebre esempio di Hjelmslev, Eco cade nelle aporie della semantica strutturale ed esse non lo abbandoneranno più.”

Il significato non può essere unicamente oggetto di interpretazione o identificarsi in essa: si corre il rischio di entrare in un loop semantico nel quale la realtà si allontana in modo centrifugo, evanescente e indistinta. L’unità di partenza, il senso profondo, non può coincidere con l’interpretazione stessa.

“Il ricorso alla teoria strutturale del campo semantico deriva dal terremoto epistemologico che scuote il lettore in Structure Absente (p. 73) e, circa negli stessi termini, in A theory of Semiotics (p. 71): << Un’unità culturale non può però essere identificata soltanto attraverso la serie dei propri interpretanti. Essa deve essere definita come “posta” in un sistema di altre unità culturali che vi si oppongono o la circoscrivono. Un’unità culturale “esiste” solo in quanto ne viene definita un’altra che vi si oppone>> (1972, p. 73). Per dotare di un metodo la semiologia, Eco ha ritenuto necessario conservare l’esistenza di strutture, perlomeno locali: << Saussure + Lévi-Strauss + Hjelmslev + Propp danno quel metodo - che si cerca di presumere unitario - che è lo strutturalismo >> (ibid., p. 328). L’atto di sudditanza è privo di ambiguità. Eco aveva colto con chiarezza che l’interpretante gli avrebbe impedito di proporre una teoria strutturalista della comunicazione: <<Anche se queste unità culturali (i significati) si potevano identificare solo attraverso i processi di semiosi illimitata [ ... ], non potevamo ancora dire che l’attribuzione del significato al significante si attua sulla base dei codici, né come >> (ibid., p. 73). Ma la significazione non può corrispondere alla relazione significante/significato - prima tappa nella catena degli interpretanti - e contemporaneamente occupare un posto fisso e stabile all’interno di un sistema. Potremmo pensare che l’interpretante sia stato relegato al livello delle connotazioni e che, in questo modo, esse sfuggano alla strutturazione. Invece no: <<Conoscere il significato connotato dal significante in un contesto dato equivale a conoscere la scelta operata dall’emittente o dal destinatario, cioè ad aver identificato posizioni differenti ma complementari all’interno dei diversi campi semantici >> (ibid., p. 95).

La descrizione dei codici e dei sotto-codici consisterà dunque in una collezione di campi semantici analizzati nella prospettiva strutturale, vale a dire secondo assi d’opposizione che facciano apparire <<un sistema generale della forma del contenuto>> (ibid., p. 75). Ad esempio: <</Mus [topo]/ può connotare “essere animato” rispetto all’asse “animato vs inanimato”, “roditore” rispetto a un sistema di assi zoologici, “pericoloso” in rapporto all’asse addomesticato vs non addomesticato e così via di seguito fino ai significati più complessi e alle connotazioni dei racconti e delle leggende>> (ibid., p. 95).”

Gli interpretanti, se correttamente desunti dal dato denotativo, possono essere a loro volta interpretati in sotto-codici connotativi:

“A questo punto viene però immediatamente in mente una domanda: quanti sono i codici che occorre utilizzare per descrivere la coppia significante/ significato in atto in un sistema di comunicazione? Se si considera che la catena infinita degli interpretanti è esattamente un segno che rinvia a un segno, cioè una coppia significante/significato che rimanda a una coppia significante/significato che rimanda... ecc., si è portati a inventariare tanti codici quante sono le coppie di interpretanti che si riescono a riconoscere. Così, ad esempio, i tipi di codici che Eco riconosce nel campo visuale non sono altro che classificazioni d’interpretanti: <<È importante osservare che in molti casi questi “codici” [notare le virgolette] saranno probabilmente sotto-codici connotativi, o anche semplici repertori. Un repertorio non si struttura in un sistema di opposizioni, ma stabilisce solamente una lista di segni che si articolano secondo le leggi di un codice soggiacente>> (ibid., p. 217). Si avrà cioè, per dirla meglio, un codice differente per ciascuna nuova coppia di significato e significante.”

Tuttavia, proprio a causa del grande numero di variabili connotative, non è possibile scrivere una grammatica universale dei codici:

“Ma, se è così, il numero dei codici sarà infinito come quello degli interpretanti; di conseguenza è una contraddizione in termini il voler proporre una teoria strutturale dei codici. La nozione di codice, infatti, risultava utile solo all’interno della prospettiva strutturale saussuriana e hjelmsleviana della coppia significante/significato; a partire dal momento in cui i codici si scontrano con la molteplicità degli interpretanti, non si vede più bene in cosa consista la loro efficacia metodologica. Ci potrà allora venir chiesto in che modo rendiamo conto della distinzione tra denotazione e connotazione. Sotto forma di intuizione non ci sono dubbi che nel significato esista un livello condiviso da tutti (identificato da Martinet, non senza rischi, con la definizione del dizionario), e che vi sia un’infinità di associazioni personali ed affettive secondarie rispetto al nucleo forte della significazione. Se l’interpretante peirciano, come noi crediamo e come ammette Eco, rappresenta contemporaneamente un atomo di significato e la nozione in base alla quale è possibile rendere conto del fenomeno di semiosi nel suo insieme, ciò che si denomina comunemente come denotazione designa una costellazione d’interpretanti comuni al poietico ed all’estesico. Non appena un interpretante si colloca, isolato, da un lato o dall’altro, si entra nel campo della connotazione. La concezione dell’autonomia del poietico e dell’estesico ci spiega così un dato di fatto evidente negli esperimenti di Osgood (1957) citati da Eco: è impossibile stabilire un criterio a priori di distinzione tra denotazione e connotazione. Se ammettiamo che occorre mantenerla, dobbiamo poi risolverla empiricamente caso per caso.

Insistiamo su questo punto perché il problema, affrontato qui dal punto di vista teorico, si ripresenterà con urgenza quando tratteremo di alcuni settori della semantica musicale.

Umberto Eco è persona troppo acuta per non essere cosciente della contraddizione che percorre la Struttura assente. Lo dice esplicitamente nella conclusione: <<Infatti, nel corso di tutto questo libro si sono delineate due linee di discorso:

a. da un lato l’appello a una descrizione delle singole semiotiche come sistemi “chiusi”, rigorosamente strutturati, visti in taglio sincronico;

b. dall’altro la proposta del modello comunicativo di un processo “aperto”, dove il messaggio varia a seconda dei codici, i codici vengono messi in campo a seconda delle ideologie e delle circostanze e tutto il sistema dei segni si ristruttura continuamente sulla base dell’esperienza di decodifica che il processo intuisce come semiosi in progress>> (ibid., p. 404) .

Come uscire da questa “impasse”? Eco sostiene che i due aspetti non si contraddicono: a tal fine, cerca di riconciliare la proliferazione degli interpretanti con il mantenimento di strutture locali rendendo il processo semiologico una <<successione di universi chiusi e formalizzati>> (ibid., p. 406). Il problema è che Eco ha voluto contemporaneamente raccogliere l’eredità di Saussure e quella di Peirce: ma i fatti semiologici non sono chiusi e aperti a un tempo. Tutto il libro, quindi, è pieno di restrizioni, di messe in guardia e richiami alla prudenza: la struttura è un’ipotesi (1972, pp. 321, 338) per ridurre il disparato <<a un unico modello di comunicazione>> (ibid., p. 321). [...]

Polemizzando con lo strutturalismo di Lévi-Strauss, Eco dimostra brillantemente, nell’ultima parte della Struttura assente, che l’idea di una Struttura universale capace di dare organizzazione stabile allo spirito umano è un’impossibilità epistemologica: <<Se la Struttura Ultima esiste, non può essere predicata, perché non c’è metalinguaggio che la possa imprigionare; e se la si lascia apparire tra le pieghe di un linguaggio che la evochi, allora essa non è l’Ultima>> (ibid., p. 383). Ma la Struttura non è assente solo in alto: lo è anche in basso. Come può essere compatibile la critica a Lévi-Strauss con la definizione di codice (data a p. 110 del volume di Eco) come metacodice di tutti i codici e di tutte le strutture possibili? <<Quando si parla di una “lingua” come “codice”, bisogna pensare a un’ampia serie di piccoli sistemi (o campi) semantici che si appaiano diversamente alle unità del sistema significante.

A questo punto il codice inizia ad apparire come: a) il sistema delle unità significanti e delle loro regole di combinazione; b) il sistema dei sistemi semantici e delle regole di combinazione semantiche delle diverse unità; c) il sistema dei loro accoppiamenti possibili e le regole di trasformazione da un termine all’altro; d) un repertorio di regole circostanziali comportante contesti diversi e diverse circostanze di comunicazione che corrispondono alle diverse interpretazioni possibili>>. Nello stesso modo in cui la struttura di Lévi-Strauss si annullava nel vuoto dell’assoluto, il codice di Umberto Eco si disgrega nell’infinitamente piccolo. Ecco spiegato il motivo per cui si è rinunciato, nel presente lavoro, a utilizzare il concetto di “codice”. Eco è uno strutturalista antistrutturalista e se dovessimo pubblicare in Italia un’introduzione alla ricerca semiotica, l’intitoleremmo Il Codice Assente.“

Di certo, il gran numero di interpretanti rende indispensabile la necessità di ricorrere sempre all’interpretazione in presenza di un’opera d’arte. Ovvero, non può essere definita la valenza strutturale di un’opera se non ricorrendo alla connotazione ermeneutica: non esiste una verità statica e immutabile, scientificamente analizzabile. Ogni referente, ogni lettore, ogni ascoltatore ha la “sua” opera particolare e mutevole, nel tempo e nello spazio:

[...]

“La fuga dalle strutture è un dato caratteristico del post-strutturalismo che si svincola oggi dalla dimensione immanente per ritrovare l’autore e il lettore. Nello stesso tempo, però, il post-strutturalismo si viene a trovare di fronte a un problema che l’avvento dello strutturalismo aveva preteso eliminare, e che invece è presente a Eco: se vi è proliferazione di interpretanti, «come non riconoscere che un’opera d’arte sollecita in noi assai più una domanda ermeneutica che non una definizione strutturale>>? (1972, p. 333).

Di fronte al vicolo cieco imboccato da Eco vi sono due uscite: recuperare il vissuto, incendiare la vecchia biblioteca strutturalista e riallacciare legami

con la migliore tradizione dell’esegesi controllata. È bene anche tenere presente che, pur essendosi dimostrato impercorribile, lo strutturalismo puro e semplice ha avuto in compenso il merito di riconoscere al testo un livello d’immanenza materiale dal quale non è possibile prescindere, anche se non è l’unico.

Se abbiamo sottoposto ad anatomia il pensiero di Eco non è stato per puro spirito polemico, ma perché ci sembra che la teoria di Molino apra la strada a un superamento delle difficoltà incontrate oggi dalla generazione formatasi nel grembo strutturalista. Come conciliare descrizione formale ed ermeneutica, analisi del livello neutro e rete d’interpretanti? È la domanda fondamentale che ci pongono contemporaneamente lo stato attuale della ricerca semiologica e le ricerche cui porta l’applicazione dei principi generali di Molino nel caso particolare della musica:[...]

La sosta effettuata su Eco ci ha permesso di dimostrare che la teoria cui ci richiamiamo risponde all’esigenza di un preciso momento della storia della semiologia e delle scienze umane.”

[...]

Per delineare il concetto di elemento neutro occorre ora chiarire meglio i legami tra la tripartizione e alcuni altri concetti:

“Da dove trae Molino la nozione di livello neutro? Molto probabilmente dallo strutturalismo. Come si è già detto, se esso ha avuto da un lato il torto di voler spiegare le opere umane limitandosi al piano delle loro configurazioni immanenti, bisogna riconoscergli dall’altro il merito storico di aver indicato che il testo letterario (per fare un esempio), possiede un’altra dimensione oltre alle sue fonti biografiche e storiche.

Anche se uno degli aspetti specifici della teoria di Molino risiede nel riconoscimento della necessità di superare le strutture immanenti degli

oggetti studiati, ci sembra che il principio della sua analisi del livello neutro si inserisca nella filiazione epistemologica di Saussure, dato che le distinzioni del Cours de linguistique générale tra linguistica esterna e linguistica interna e tra langue e parole consentono di identificare <<un campo specifico della ricerca e dell’esistenza irriducibile a qualsiasi condizionamento esterno>> (Molino, in MolinoTamine 1988).

È per questo motivo che, nel momento in cui ci occuperemo dell’analisi del livello neutro, troveranno uno spazio privilegiato i modelli della linguistica strutturale. Esiste però una differenza essenziale tra l’approccio strutturalista e l’analisi del livello neutro: se la descrizione strutturale di un oggetto considerato come una totalità organizzata, in seguito agli esiti della linguistica storica del diciannovesimo secolo, doveva passare per forza attraverso una fase sistematica, attualmente non si ha più la certezza che la conoscenza delle tracce lasciate dagli uomini sia riducibile al solo livello immanente. L’analisi del livello neutro eredita dallo strutturalismo la fondamentale acquisizione che i messaggi presentano un grado d’organizzazione specifica che occorre descrivere. Non ci si può tuttavia fermare ad esso: il poietico affiora nell’immanenza; l’immanenza è il trampolino dell’estesico. Il compito della semiologia consiste nell’identificare gli interpretanti secondo i tre poli della tripartizione e nello stabilire le loro relazioni reciproche.

[...]

Se si ammette che nelle opere umane i fenomeni di produzione, le tracce che ne derivano e i fatti di percezione non necessariamente coincidono fra loro, diviene possibile una prima applicazione della nostra prospettiva semiologica: alludiamo alla lettura critica dei metodi proposti dalle scienze umane del nostro secolo. Basterà dare qui alcuni esempi. Secondo l’enunciato della prima tesi del Circolo linguistico di Praga: <<Quando si analizza il linguaggio come espressione o come comunicazione, l’”intenzione” del soggetto parlante è la spiegazione che si presenta più facilmente e che risulta la più naturale>>; il livello di descrizione immanente è dato quindi come poieticamente pertinente. Al contrario, si è potuto definire lo strutturalismo di Lévi-Strauss come una <<logica della percezione estetica>> (Simonis, 1968, pp. 312-33): come dire che le strutture immanenti che egli isola corrispondono a categorie estesiche. Per quanto riguarda il concetto chomskiano di competenza, esso confonde la poietica e l’estesica, dato che la competenza è nello stesso tempo la facoltà di emettere (poietica) e di comprendere (estesica) frasi che non sono mai state pronunciate o udite in precedenza. Una parte del nostro lavoro consisterà nel dimostrare la necessità di tener conto della tripartizione nei diversi campi di studio della musicologia.

Secondo Molino, il motivo per cui di fronte a uno stesso oggetto i ricercatori che si riconoscono in una medesima linea di pensiero pervengono a risultati divergenti, arbitrari e contraddittori risiede nel costante mescolarsi dei livelli poietico, neutro ed estesico all’interno della pratica delle scienze umane. <<Si può progredire nella conoscenza solo se si distinguono queste tre dimensioni. Dovrà pur giungere un momento in cui esse si riuniranno e si presenterà così una costruzione sintetica dopo la quale non troveremo mai l’equivalente della confusione di prima. Prima, c’è confusione. Dopo, c’è la sintesi: tra le due, c’è stata l’analisi descrittiva>> (Molino, 1975b).

La tripartizione è ovviamente più facile da pensare che da realizzare, anche perché non è detto che disponiamo di strumenti di uguale capacità per l’analisi delle tre dimensioni; è in quest’ottica che il nostro progetto intende definire i limiti dell’analisi musicale. Molino non è stato il primo, ovviamente, ad alludere a una discrepanza tra il poietico e l’estesico: si ritrovano osservazioni simili in campo letterario. Ne riportiamo alcune prese a caso:

- Nietzsche: <<Kant, invece di affrontare il problema estetico dal punto di vista della pratica dell’artista (del creatore), ha meditato sull’arte e sul bello solo dalla prospettiva dello “spettatore”, e così facendo ha insensibilmente introdotto lo “spettatore” nel concetto di “bello”>> (1974, p. 275).
- Il musicologo André Souris: <<Nel fatto musicale vi sono tre punti di vista: quello dell’autore, dell’interprete, dell’ascoltatore. 1 loro rapporti sono profondamente differenti, talora contraddittori, e talora confusi>> (1976, p. 47).
- Roger Sessions concorda con la precedente: <<Compositore, esecutore e ascoltatore possono senza esagerazione essere considerati non solo come tre tipi o gradi di rapporto con la musica, ma anche come tre stadi successivi di specializzazione>> (1962, p. 4).
- Ancora, in un lavoro di semiologia musicale tedesco: <<Gli avvenimenti sonori svolgono un ruolo intermediario tra il versante di chi produce e quello di chi percepisce; essi agiscono come veicolo di rapporti comunicativi>> (Stockmann 1970, p. 76).

In quest’ultimo testo, comunque, la distinzione delle tre istanze rimane nel quadro della teoria classica della comunicazione (ibid., p. 77). Constatiamo inoltre che gli autori citati, anche se riconoscono l’esistenza di tre dimensioni differenti, non sembrano averne tratto le necessarie conseguenze ai fini dell’analisi. È evidente che l’originalità, e nel contempo la difficoltà della concezione di Molino, risiede nell’aver postulato la necessità di un’analisi intermedia, quella del livello neutro. A questo punto è assolutamente essenziale capire che essa secondo la felice espressione di Otto E. Laske (1977, p. 221), è un artefatto metodologico.

L’analisi del livello neutro funziona come un promemoria: permette di far comparire unità che un’analisi puramente poietica o puramente estesica avrebbero potuto trascurare; in determinate situazioni è possibile perciò attribuirvi un carattere propedeutico.

L’analisi del livello neutro viene continuamente messa sottosopra: occorre rimaneggiarla e trasformarla ogni volta che nuove informazioni inducono a introdurre nuove variabili descrittive e a riorganizzare in nuove configurazioni le segmentazioni precedenti.

L’analisi del livello neutro non è che un momento dell’analisi: non contiene tutte le informazioni necessarie agli approcci poietici ed estesici, ma solo alcune. Tra le tre dimensioni dell’oggetto, l’analisi non cessa di determinare movimenti dialettici.

L’analisi del livello neutro è dunque in movimento: essa si sposta costantemente via via che il lavoro progredisce; di qui il suo carattere paradossale. Ammettendo che un’analisi sia tanto più precisa qualora sia scritta, l’analisi del livello neutro si presenta innanzitutto come un oggetto grafico, fatto che è in assoluta contraddizione con il rimando all’infinito e il carattere sfuggente degli interpretanti che essa insegue: ma è proprio la loro presenza a determinare un processo infinito di rinvio. La problematicità della semiologia è legata alla natura stessa del funzionamento simbolico.

L’analisi del livello neutro, in una parola, è descrittiva anche se cercheremo di dimostrare che le analisi poietiche ed estesiche, invece, sono di natura esplicativa.” [...]

Ma l’elemento neutro assume carattere simbolico se se ne coglie la valenza iconica in una estrema astrazione concettuale:

“La teoria semiologica di Molino rappresenta un fatto isolato? Sì, se si considera che ha poco da spartire con le semiologie che occupano o hanno occupato di recente un posto di rilievo come quelle di Barthes, Greimas, Kristeva, ecc. La sua caratteristica fondamentale consiste nel riconoscere la specificità del fenomeno simbolico, con un proprio livello d’organizzazione di cui occorre rendere conto, differente dagli altri tre sistemi in cui è suddiviso il sistema sociale complessivo: il bio-sociale, l’ecologico-economico e il socio-politico (Molino 1978, pp. 20-l).

Ovviamente questa teoria non è però l’unica a riconoscere l’esistenza del simbolico. Già da molto tempo la filosofia della scienza, nel pensiero di Locke, Condillac, Leibniz, ha sviluppato un livello specifico di simboli utilizzati dai linguaggi della scienza; dal circolo di Vienna a Granger, Gardin e Régnier (per citare solo i francesi), esiste una tradizione epistemologica all’interno della quale la riflessione sui sistemi simbolici è d’importanza fondamentale. Passando a un campo completamente diverso, non vi è, per Freud come per Jung, psicoanalisi senza simbolo. I diversi indirizzi della psicologia gli attribuiscono un ruolo centrale sia nel riconoscimento della funzione simbolica nel bambino (Piaget) sia nella ricerca della sua presenza nel funzionamento psichico (Bates, Bonnet, gruppo “progetto zero” del MIT). Anche gli antropologi si interessano al ruolo svolto dal simbolo nella società (White, Geertz, Durand). Cassirer, poi Langer e anche Dumézil, hanno interpretato lo studio dei miti, del linguaggio e dell’arte come studio di forme simboliche. La demografia riconosce il ruolo dei fattori simbolici anche nello sviluppo delle popolazioni.

Ma la presenza del simbolico non è riconosciuta soltanto nell’ambito delle scienze umane. C’è chi propone, come Leroi-Gourban, una paleontologia dei simboli (1965, cap. X), chi una neuro-semiologia (Perron [a cura di] 1981, Changeux 1983). Duhem, fisico francese oggi più conosciuto nei paesi anglosassoni che in Francia, affermava che le stesse leggi fisiche altro non sono che costruzioni simboliche: «La fisica teorica non afferra la realtà delle cose, ma si limita a rappresentare le apparenze sensibili per mezzo di segni, di simboli» (1906, p. 170). Più recentemente l’economista Guillaume (1975) dimostrava il ruolo decisivo dei fattori simbolici nei fenomeni economici.

Così come si parla di un “collegio invisibile” a proposito di reti scientifiche che non sono collegate a specifiche istituzioni, diremo che esiste da molto tempo una “semiologia silenziosa” che considera fondamentale la presenza del simbolico. Con quest’espressione non vogliamo suggerire l’esistenza di una scuola segreta e clandestina, ma di una corrente abbastanza eterogenea la cui metodologia di studio non è stata sistematizzata, anche se alcuni di questi autori (Granger, Gardin, Bates, Bonnet, Geertz, Guillaume) hanno usato la parola “semiologia”. La prospettiva di Molino, per quanto ci risulta, è dunque l’unica a proporre esplicitamente l’abbozzo di una semiologia organizzata dei fenomeni simbolici. Il nostro lavoro consiste nell’esplorare, in maniera indubbiamente maldestra, l’articolazione delle tre componenti dell’oggetto simbolico in campo musicale, e quindi nel far progredire la conoscenza del musicale nel quadro di tale teoria.

La semiologia non esiste: con questo vogliamo dire che non c’è una semiologia generale (nel senso in cui esisterebbe una linguistica generale) intesa come un insieme di concetti, di metodi e di regole che possa permettere l’analisi del simbolico in qualunque campo. Solamente ricerche particolari come la nostra e volte verso altri settori potrebbero, se intraprese sulla base dei medesimi principi teorici, aprire la strada a una metodologia più globale (ammesso che possa esistere) È tuttavia possibile riassumere le caratteristiche principali del simbolico e le conseguenze metodologiche che ne derivano (Molino 1978, 1982a):

1. Il simbolico è un fenomeno costruttivo e dinamico, caratterizzato essenzialmente dal rinvio; in questi termini si distanzia dalla realtà pur essendo un elemento del reale. I significati veicolati dal simbolico non sono dunque immediatamente leggibili nelle strutture della traccia che li trasmette; occorre perciò distinguere tre modi d’analisi relativamente autonome: l’analisi del livello neutro, dei processi poietici e dei processi estesici.
2. Il simbolico è un campo autonomo nell’insieme dei fatti sociali; ha una sua propria esistenza; è necessario analizzarlo e descriverlo separatamente in tutta la sua complessità prima di metterlo in rapporto con altri settori (sociale, psicologico, economico) o di cercare di spiegarlo attraverso altro da sé.
3. Il simbolico è una cosa; <<Si conserva, dura>> (Molino 1981c, p. 74), <<evolve>> (ibid., p. 75), agisce: l’affiorare di una traccia inedita nell’ambito del vissuto modifica la configurazione dello spazio delle forme come di quello dei significati, e definisce un orizzonte possibile di nuove organizzazioni simboliche. Il simbolico è uno strumento: <<La parola non agisce in modo più misterioso del martello: agisce diversamente>> (1978, p. 23). Grazie ad esso, l’uomo influenza il proprio ambiente e lo modifica.
4. Il simbolico esiste: << Non è più mentale che materiale. Non è un fatto mentale se con questo si pensa al mondo chiuso di una fortezza interiore nella quale venga allestito ogni genere di complotto immaginario; è un’attività che non riconosce i confini giuridici del pubblico e del privato

[ ... I.

Il simbolico è dunque nella preghiera, nel rito e nel saluto oppure nel monologo interiore, nel sorriso e nel grido, ma si trova anche nelle astuzie sottili dell’interesse. La cultura non è una cosa mentale, ma una configurazione di condotte simboliche>> (1978, p. 25). Il simbolico non è perciò meno reale di quanto non lo sia l’immaginario visto come costruzione simbolica.”

La dissertazione mira a dimostrare come, alla base della comunicazione musicale, e delle varianti connotative ermeneutiche che da essa scaturiscono, esista la “musica” come “forma simbolica”, nella certezza che non esista “simbolo” che non debba essere, in qualche modo, “interpretato” per giungere alla soglia della comprensione.

[...]

“Uno dei passatempi preferiti dal semiologi consiste nel proporre definizioni delle diverse specie di segni. Anche se non riteniamo possibile né utile fondare una semiologia particolare su una tipologia dei segni, la polisemia delle parole “il simbolo” e “simbolico” esige, dopo queste precisazioni sulla concezione del simbolismo in Molino, che la poniamo in rapporto alle altre accezioni del termine.

1. Si parla di funzione simbolica in generale per indicare la <<capacità di rappresentare l’assente>> (Paulus 1969, p. 21). La definizione offerta da Mounin ci sembra particolarmente chiara: << Ogni funzione di sostituzione mentale, cioè ogni capacità di utilizzare qualsiasi oggetto di una percezione, che sia associata in modo naturale o convenzionale a un oggetto o a una situazione in quanto suscettibile di sostituirsi a quell’oggetto o a quella situazione ogni volta che la loro presa diretta risulti difficile o impossibile>> (1970, p. 70). Per i sostenitori di un’estetica simbolista dell’arte, basta, scrive Gilson, <<includere nella nozione di simbolo tutti i segni senza alcuna eccezione, qualunque sia la loro natura: parole, linee, forme, colori e anche suoni>> (1963, p. 99). Si raggiunge così l’ampiezza di significato attribuita alle forme simboliche da Cassirer: << La funzione generale di mediazione per mezzo della quale lo spirito e la coscienza costruiscono l’intero proprio universo di percezione e di discorso>> (Ricœur 1965, p. 19). È esattamente in questo senso che la teoria di Molino si pone come teoria generale del fatti simbolici. Ritroviamo la stessa accezione nell’ambito della “logica simbolica” che fa ricorso a un tipo particolare di linguaggio in cui i segni, definiti in maniera univoca, esprimono relazioni non ambigue. Ma il medesimo termine, sempre a causa della sua portata generale, alluderà sia alla polisemia di una espressione sia all’esegesi infinita che ne analizza i significati.
2. In questo modo prende corpo in modo autonomo una seconda accezione della parola “simbolo”: l’oggetto di una esegesi. Secondo Ricœur, l’ermeneutica come attività filosofica è basata sul simbolo e sul simbolico: <<Il simbolo è un’espressione linguistica a doppio senso che richiede l’interpretazione, e l’interpretazione un lavoro di comprensione che mira a decifrare i simboli>> (1965, p. 15). <<Non c’è simbolo senza interpretazione; là dove un uomo sogna, profetizza o poeta, un altro si leva a interpretarlo; l’interpretazione appartiene organicamente al pensiero simbolico e al suo doppio senso>> (ibid., p. 26).
3. Ricœur si preoccupa però di ricordare (p. 25), che la parola “simbolo” può avere altri significati che non devono confondersi con il significato che egli attribuisce a questo termine. Il simbolo saussuriano, ad esempio, è un genere particolare di segno caratterizzato da un legame analogico tra simbolizzante e simbolizzato per opposizione al segno arbitrario: le onomatopee della lingua, le croci nel cartelli stradali che indicano gli incroci, ecc. Per tale accezione del simbolo Peirce usa la parola icona, mentre il simbolo peirciano concorda con la nozione di segno arbitrario in Saussure. È comprensibile allora che gli studiosi, in particolare i francofoni e gli anglofoni, trovino talora difficoltà a capirsi.

Ma siamo poi certi che lo stesso concetto di legame analogico sia chiaro? Non riprenderemo in questa sede le interminabili discussioni sull’arbitrarietà del segno, accontentandoci di fornire alcune indicazioni terminologiche. Lalande, per esempio, vede il simbolo come <<ogni segno concreto che evoca, attraverso un rapporto naturale, qualcosa di assente o di non percepibile; ma naturale non significa necessariamente analogico più di quanto arbitrario non sia sinonimo di convenzionale. I segnali del codice stradale, arbitrari o analogici che siano, vengono adottati in funzione di una convenzione. Al contrario, il legame tra simbolizzante e simbolizzato può sembrare naturale a causa di un’abitudine, e non di un’analogia: sappiamo che l’immagine di un serpente su un negozio o su un’automobile sta a indicare “Farmacia”, “Automobile di medico”. Forse ci ricordiamo che il serpente è simbolo della prudenza, ma sappiamo ancora perché? Nel momento in cui la motivazione non viene più percepita, si abbandona il simbolo nell’accezione saussuriana per ritrovare quella di Ricœur illustrata nel paragrafo precedente.

4. Sono senza dubbio queste ambiguità che portano Paulus a definire nel seguente modo il legame tra simbolizzante e simbolizzato: <<Ciò che li collega e fa sì che l’uno evochi l’altro, è la comunanza di reazioni affettive che essi provocano, comunanza derivata sia da leggi psichiche innate sia da abitudini culturali, sia infine da esperienze e associazioni individuali» (1969, p. 14). La nozione di analogia non è tuttavia assente in lui: <<Il simbolo può degradarsi - o purificarsi - in segno quando si annulla la componente affettiva che l’ha fatto nascere. Ne rimane allora solo un sostituto allo stato puro, spogliato di qualsiasi rassomiglianza sia percettiva sia affettiva con l’oggetto. I guerrieri achei o germani si toglievano l’elmo per arrendersi, gesto il cui significato è evidente. Una lontana conseguenza di questa pratica è quella di togliersi il cappello davanti a un superiore: il simbolo, all’origine trasparente, è divenuto opaco, mutandosi in segno di rispetto (1969, p. 15).

[...]

Excerpt out of 175 pages

Details

Title
Teoria dei Sonemi
Subtitle
Principi, estetica, modalità e tecniche di base
Course
nn
Grade
Keine
Author
Year
2009
Pages
175
Catalog Number
V125326
ISBN (eBook)
9783640312283
ISBN (Book)
9783640316250
File size
1263 KB
Language
Italian
Notes
Oggetto di studio della dissertazione è l'analisi e la definizione di una originale metodologia compositiva, denominata teoria dei Sonemi, nella quale vengono introdotti concetti e tecniche mutuati dall'integralismo di Hanslick nell'ottica dell'ermeneutica di Pareyson e della scuola fenomenologica di Husserl, in generale, e di Alfred Schütz in particolare.
Keywords
sonema, sonemi, sonotipia, sonotipie, teoria, composizione, analisi, musicale, originale, opera, unica
Quote paper
Dr. Piero T. de Berardinis (Author), 2009, Teoria dei Sonemi, Munich, GRIN Verlag, https://www.grin.com/document/125326

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